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  • Coppia e Lavoro: L’Unione porta al Successo

    Coppia e Lavoro: L’Unione porta al Successo

    Coppia e lavoro: Grazia e Giuseppe mostrano come unione, valori e famiglia possano trasformarsi in successo condiviso e futuro da costruire insieme.

    La foto di copertina è una gentile concessione di Grant Hairdresser e ritrae il team al completo: Grazia, Giuseppe, Sergio, Consuelo e Melina.
    Ho scelto di inserirla perché rappresenta al meglio ciò che scopriremo in questi due articoli-interviste: un percorso di coppia che non si è fermato a due persone, ma che si è trasformato in un progetto condiviso e in continua evoluzione.

    Nella prima parte della loro storia — “Coppia e Lavoro possono Crescere Insieme? Una testimonianza” — abbiamo visto come Grazia e Giuseppe abbiano scelto di intrecciare vita privata e professione, costruendo un’impresa solida e innovativa.

    In questa seconda parte entriamo più a fondo nei valori che li guidano: dal sostegno reciproco nei momenti difficili alla capacità di restare diversi e complementari, fino al ruolo della famiglia e ai sogni per il futuro.

    La loro testimonianza dimostra che coppia e lavoro possono crescere insieme non solo grazie all’organizzazione, ma soprattutto attraverso rispetto, ascolto e fiducia.

    Coppia e Lavoro: Superare i Momenti Difficili

    Quali sono stati i momenti più difficili da affrontare insieme e come li avete superati?

    Grazia: Grandi crisi non ce ne sono state, ma la fase più faticosa è arrivata con la nascita di Roby. Conciliare lavoro e famiglia era complicato.

    Giuseppe: Abbiamo speso un capitale…

    Grazia: Abitavamo fuori Milano e Roby passava troppe ore lontano da casa. Lo portavamo al nido vicino al salone, che costava moltissimo. Per aiutarci avevamo preso anche un appartamento in affitto con una ragazza che lo teneva fino a sera. Ricordo le sere: lui addormentato in macchina con una focaccina in mano, e noi sfiniti dopo una giornata interminabile.

    Giuseppe: E spesso Grazia era via per corsi e riunioni: il lunedì e la domenica non c’era mai.

    Grazia: Sì, è stato pesante. Fare L’Oréal Ambassador era un’opportunità enorme, ma volevo anche essere madre. Se ce l’ho fatta è perché Giuseppe c’era sempre. Roby non può dire di non aver avuto almeno un genitore presente.

    Giuseppe: Abbiamo anche provato a coinvolgerlo nel nostro lavoro, ma ci ha detto subito di lasciar perdere. Oggi è programmatore.

    Grazia: Come abbiamo superato tutto? Con l’intesa e l’amore. Quando il sentimento è forte, i momenti difficili non ti spezzano: ti rafforzano.

    Diversi ma Complementari

    In cosa siete diversi e come queste differenze sono diventate una risorsa per il vostro lavoro di coppia?

    Grazia: Siamo diversi, ed è il nostro punto di forza. Io sono la parte pratica, lui la mente organizzativa. Se fossimo entrambi hairstylist, avremmo rischiato di competere. Invece, con ruoli differenti, ci completiamo.

    Abbiamo anche una regola semplice: chiudiamo la claire e a casa si parla d’altro. Così la mente respira e il giorno dopo si riparte con energia nuova.

    Giuseppe: È vero, siamo completamente diversi, e si vede subito. Ma abbiamo una fortuna: sappiamo ascoltarci. A volte lei va di pancia e io la faccio riflettere; altre volte succede il contrario. Quando mi arrabbio, è Grazia a riportarmi coi piedi per terra.

    Essere diversi ma capaci di ascoltarci è diventata la nostra forza, e questo ci permette di dire che coppia e lavoro possono davvero completarsi a vicenda.

    Grazia e Giuseppe nel loro salone Grant Hairdresser: un esempio di come coppia e lavoro possano unirsi e portare al successo.
    Grazia e Giuseppe nel loro salone: l’unione tra vita privata e professione diventa motore di innovazione e continuità.

    Rispetto e Ambizione: i Pilastri del Cammino

    Quali valori e quale sostegno reciproco vi hanno permesso di crescere come coppia e come professionisti?

    Grazia: Avere Giuseppe al mio fianco è stato, ed è tuttora, il perno del mio modo di essere. Lui è sempre il primo a credere in me: quando mi sento stanca o insoddisfatta, mi ricorda chi sono e mi dà la forza di andare avanti. Senza il suo sostegno non avrei avuto la stessa spinta.

    Giuseppe: Anche nelle scelte più pratiche, come l’assunzione del personale, i nostri approcci sono diversi. Grazia decide d’istinto, io cerco di mediare e portare equilibrio. Credo che questo sia il vero valore di una coppia che lavora insieme: compensarsi.

    Per esempio, quando scegliamo i collaboratori, la tecnica è importante, ma prima di tutto guardiamo la persona: educazione, gentilezza, capacità di stare con gli altri. Questo non si insegna, lo insegni la vita.

    Poi c’è l’ambizione. Grazia è ambiziosa come una ragazzina. Sergio Castiglia, il nostro socio più giovane, ha la stessa energia. È questo valore che tiene vivo il salone e ci porta sempre a puntare più in alto.

    Grazia: Come coppia, invece, il valore più grande è il rispetto reciproco. Senza rispetto non si costruisce nulla.

    Giuseppe: Esatto. Non sempre condivido le sue idee, ma le rispetto. È il rispetto, unito al sostegno e all’ambizione, che tiene in equilibrio la nostra coppia e il nostro lavoro.

    Coppia e Lavoro: Famiglia e Libertà di Scelta

    In che modo l’essere genitori ha inciso sulla vostra esperienza di coppia e di lavoro?

    Grazia: Avere un figlio è stata la ciliegina sulla torta della nostra unione. È la parte che ci ha dato una gioia immensa, accanto al lavoro e alla vita di coppia.

    Essere genitori ci ha insegnato anche a rispettare le scelte di nostro figlio. Quando Roby frequentava il liceo gli dicevo: “In estate vieni a lavorare in salone, fai gli shampoo ai clienti”. Ci ha provato, ma dopo pochi giorni ha smesso: era evidente che non fosse la sua passione.

    L’ho capito ancora meglio due anni fa, quando la sua ragazza si è rotta un braccio. Gli ho detto: “Adesso i capelli glieli lavi tu!”. E lui: “Non ci penso proprio! A me fanno schifo i capelli.”

    Col senno di poi ho capito che lo faceva malvolentieri, solo per accontentarmi.

    È un tassello del nostro cammino: ogni famiglia mescola lavoro e vita in modo diverso; per noi, la genitorialità ha dato ancora più profondità alla coppia.

    Il Futuro e i Sogni nel Cassetto

    Dopo tanti anni insieme, avete ancora un sogno nel cassetto, personale o professionale, che vi piacerebbe realizzare?

    Grazia: Io scherzo sempre: “È ora di andare in pensione!”. Poi mi chiedo: “E a fare cosa? Finirei comunque a lavorare”. Ogni tanto fantastichiamo di aprire un chiosco in riva al mare: io che faccio due pieghe mentre Giuseppe prepara i cocktail. Ma la verità è che non riesco a immaginarmi senza questo lavoro. Finché la mano tiene, si va avanti. Il mio sogno è continuare a crescere e raccogliere bellezza ogni giorno.

    Giuseppe: Lei ama quello che fa, io amo quello che faccio. E questo per me è già un sogno realizzato: poter continuare a lavorare con passione. A 65 anni non penso alla pensione, ma a restare ancora a lungo in questo mondo che mi dà energia e vita.

    Coppia e Lavoro: Condivisione di Visioni per chi ci legge

    Che cosa avete imparato, come coppia e come famiglia, che vi piacerebbe trasmettere a chi legge?

    Grazia: Sfatiamo un mito: moglie e marito possono lavorare insieme, se c’è amore, rispetto, ascolto e fiducia.

    Giuseppe: Guardiamo i risultati. Non siamo il salone più grande di Milano, ma in tutta Italia ci conoscono. Per me questa si chiama alleanza: ognuno valorizza le competenze dell’altro. Certo, ci confrontiamo anche in modo acceso, ma sempre con rispetto.

    Grazia: Spesso è proprio dal confronto che nasce la strada giusta.

    Giuseppe: Una coppia funziona, nel lavoro come nella vita, se sa unire fiducia, ascolto e ha la capacità di rimettere a fuoco gli obiettivi quando serve.

    Dal Noi al Team: Coppia e Lavoro verso il Futuro

    La storia di Grazia e Giuseppe mostra come coppia e lavoro possano andare oltre il “noi” e diventare impresa condivisa. Hanno costruito un team coeso, accolto un nuovo socio e garantito continuità alla loro realtà: non si sono fermati alla dimensione privata, ma hanno trasformato l’alleanza di coppia in un progetto che evolve e si rinnova.

    I principi che li guidano — fiducia, ascolto, rispetto e onestà — non valgono solo per chi lavora in coppia. Sono le fondamenta di qualunque percorso condiviso, anche con più soci: ciò che rende sostenibile l’organizzazione, facilita le decisioni e tiene unita la visione nel tempo.

    Questo è il cuore della loro testimonianza: quando i valori relazionali orientano i processi, coppia e lavoro diventano motore di imprese durature, capaci di generare futuro.

    Come nella foto di apertura, il loro esempio non ritrae soltanto due persone: racconta un team che cresce insieme, una comunità professionale educata alla fiducia e all’ascolto, che ogni giorno rende visibile la forza del lavorare in coppia e in squadra.


    Raccontare la propria storia è un atto di valore: fa riflettere, dà significato e apre nuove possibilità per il futuro. Vuoi provarci anche tu?

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  • Coppia e Lavoro possono Crescere Insieme? Una testimonianza

    Coppia e Lavoro possono Crescere Insieme? Una testimonianza

    Coppia e lavoro: la storia di Grazia e Giuseppe, tra ruoli complementari, sfide L’Oréal e innovazione in un salone di Milano.

    Molti si chiedono come sia possibile lavorare insieme per anni senza incrinare il rapporto di coppia.
    Questa intervista nasce proprio da qui: dal desiderio di offrire un esempio concreto di come vita privata e lavoro possano sostenersi a vicenda.

    Con l’approccio delle Biografie Pedagogiche, ho raccolto la storia di due amici che conosco da oltre dieci anni: Grazia e Giuseppe, una coppia che condivide non solo la vita, ma anche il lavoro.

    Il loro salone è Grant Hairdresser, realtà milanese che oggi vede al loro fianco anche il socio Sergio Castiglia.

    Coppia e Lavoro: Perché raccontarsi?

    Molti vi chiedono come si possa lavorare insieme, come coppia, per così tanti anni. Da dove è iniziata questa avventura e quale scelta ha fatto la differenza?

    Giuseppe: Venticinque anni insieme, dal 2000. Prima avevo un locale sui Navigli: dal ’95 al 2000, dopo un periodo da dipendente, ero passato a gestirlo. Grazia invece aveva aperto il salone già nell’89.

    Per anni ci siamo incrociati a fatica: lei a casa il lunedì, io lavoravo; il sabato per me mezza giornata, per lei il giorno intero.

    A un certo punto ci siamo detti la verità: con due attività così diverse coppia e lavoro stavano andando a scatafascio. Qualcuno dei due doveva vendere. Inizialmente ho fatto i “quattro conti della serva”: un bar rende molto più di un salone, forse dieci volte.

    Però mi sono chiesto: vuoi solo soldi o vuoi tenerti la Grazia di cui ti sei innamorato?

    Lei ama profondamente il suo mestiere. Temevo che, togliendola dal suo ambiente, sarebbe cambiata. Forse sì, forse no. Non volevo rischiare. Così ho scelto: mollo io. Ho venduto il bar e sono entrato in collaborazione con lei.

    Come resistiamo così a lungo? Perché non facciamo lo stesso lavoro. Io non sono parrucchiere, non è nelle mie corde.

    Quando sono entrato ho ribaltato i processi e informatizzato tutto. Nel 2000 siamo stati tra i primi ad adottare gestionali per parrucchieri: agenda elettronica, contabilità, fatturazione, analisi dei dipendenti.

    Prima era carta e biro, da noi no.

    Questa competenza me la sono costruita guardando lei: l’amore per il lavoro c’era già. In sintesi: lei mette cuore e arte, io creo il sistema che le permette di esprimerli.

    È così che coppia e lavoro stanno in piedi da venticinque anni.

    La Sfida di Grazia come L’Oréal Ambassador

    Grazia, sei una professionista e imprenditrice riconosciuta, L’Oréal Ambassador Qual è stata la tua più grande sfida personale in questo percorso?

    Formazione e crescita professionale

    Grazia: Diventare L’Oréal Ambassador è stata una tappa fondamentale. Una sfida vera, perché comporta una crescita professionale impegnativa, che ti mette sempre alla prova. Come diceva Giuseppe, nel 2000 abbiamo deciso di cambiare: “facciamo qualcosa di diverso”.

    L’Oréal ci propose questo percorso e io mi ci sono buttata.

    Essere L’Oréal Ambassador significa studiare alla base tutto: dalla colorazione agli ingredienti degli shampoo. Non si tratta solo di vendere un prodotto, ma di conoscerlo a fondo, capirne gli effetti e saperli spiegare al cliente con chiarezza.

    Un’altra sfida è stata formare i colleghi.

    Con i clienti racconti la moda, li accompagni nelle tendenze. Con i professionisti no: ti osservano mentre esegui una collezione e sanno se stai lavorando bene.

    Questo ti obbliga a un livello di attenzione altissimo e ti fa crescere in modo esponenziale.

    Oggi vedo lo stesso percorso in Sergio Castiglia, che sta crescendo con noi.

    E penso che sia giusto così: ogni generazione deve fare la sua strada, esattamente come noi la facciamo da oltre vent’anni, intrecciando coppia e lavoro in un equilibrio che continua a rinnovarsi.

    Creatività e impresa: due lati inseparabili

    In che modo la creatività e la precisione tecnica del tuo lavoro si intrecciano con la responsabilità di guidare un’impresa?

    Grazia: Per me creatività e impresa vanno di pari passo. Se non sei capace di eseguire bene il tuo lavoro, non puoi guidare un’azienda né insegnare ai tuoi collaboratori. La creatività è ciò che mi spinge a non fermarmi: anche oggi, a sessant’anni, ho voglia di imparare, di scoprire novità. Senza stimoli resti “basic”. Noi invece vogliamo guardare sempre più in alto.

    Essere L’Oréal Ambassador mi ha insegnato che la formazione non finisce mai: è continua, ti costringe a crescere e a restare aggiornata.

    Oggi ho rallentato, seguo soprattutto la parte stilistica, gli eventi, il cinema, le sfilate.

    La parte didattica l’ho lasciata a Sergio Castiglia, che sta crescendo con entusiasmo nel suo percorso.

    In un’impresa è fondamentale che ci sia sempre qualcuno pronto a raccogliere il testimone: solo così si garantisce continuità.

    Organizzazione e Comunicazione: Competenze che generano Valore

    Qual è stato il tuo contributo specifico nell’organizzazione e nella comunicazione, e come ha influito sull’equilibrio tra coppia e lavoro?

    Giuseppe: Oggi la comunicazione è veloce, non puoi permetterti errori.

    Lo/la stylist deve concentrarsi solo sul suo mestiere. Se lo/la carichi anche di conti, fornitori, problemi con i collaboratori, non lavorerà mai bene.

    L’ho imparato in questi venticinque anni: il/la parrucchiere/a è un mestiere particolare.

    Ti faccio un esempio: se cammini per strada e un uomo/donna ti tocca i capelli, la maggior parte delle persone reagisce male.

    Perché? Toccare la testa è un gesto intimo. Quando lavi o acconci una/un cliente, trasmetti il tuo stato d’animo. Per questo lo/la stylist deve essere sereno/a. Io mi occupo di tutto ciò che serve a farli lavorare bene.

    Grazia: E non solo. Oggi la pubblicità passa da Instagram, TikTok, Facebook. Una volta bastava un annuncio sul giornale, oggi i clienti arrivano dai social.

    Giuseppe ha capito per tempo che bisognava investire nella comunicazione digitale.

    Giuseppe: Ho 65 anni e quando mi volto indietro vedo un bel percorso. Non facile — il “Mulino Bianco” esiste solo in televisione — ma pieno di soddisfazioni. Molti pensano che lo/la stylist sia tutto.

    In realtà, perché un orologio funzioni, servono tutti gli ingranaggi. Il mio ruolo è stato proprio questo: farli girare insieme, nel modo giusto.

    Ho dato equilibrio, organizzazione e visione. È questa la mia parte nella nostra storia.

    Realizzarsi insieme senza smettere di essere Se stessi

    È possibile essere coppia anche nel lavoro? Sì.

    Conosco Grazia e Giuseppe da oltre dieci anni. Ho proposto loro di raccontarsi e lo hanno fatto con autenticità e semplicità, dimostrando che si può costruire un percorso di vita e professione senza perdere la propria individualità.


    La loro storia dimostra che il racconto, quando viene condiviso, non solo valorizza il passato: riaccende idee e significati per il futuro.

    È la finalità delle interviste biografiche pedagogiche: riflettere sul proprio vissuto, dare valore alle esperienze, trasformare i ricordi in nuove possibilità.

    👉 Nella seconda parte scopriremo i Valori che li guidano, le Sfide affrontate in famiglia e i sogni che ancora custodiscono.

    Leggi qui la Parte 2: Coppia e Lavoro: L’Unione porta al Successo


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  • Non voglio tornare a scuola!

    Non voglio tornare a scuola!

    Non voglio tornare a scuola! Scopri come trasformare il rientro in un’opportunità di crescita con il giusto accompagnamento familiare.

    “Non voglio tornare a scuola!”
    Quante volte lo sentiamo dire? È una frase che risuona nelle case e negli zaini ancora vuoti. Non è solo un capriccio: è una richiesta d’aiuto che va ascoltata con attenzione.

    Il rientro a scuola, infatti, non riguarda solo i bambini. Coinvolge tutta la famiglia, anche quando mamma e papà sono separati. Ogni ritorno diventa perciò un passaggio: dalla libertà estiva a un contesto fatto di regole e responsabilità.

    La scuola non è soltanto un luogo dove si studia. È un vero laboratorio di vita: convivenza, rispetto delle diversità, inclusione, autonomia. Tuttavia, i bambini non possono comprenderlo da soli. Hanno bisogno di qualcuno che li accompagni, trasformando la paura in curiosità e la stanchezza in energia.

    Questo articolo nasce per offrire uno sguardo pedagogico narrativo. Non vuole dare lezioni ai genitori, ma mostrare quanto la loro presenza sia decisiva per un rientro sereno.

    Scopriremo quanti bambini torneranno in classe quest’anno e, allo stesso tempo, racconteremo storie e strategie per accompagnarli. Perché dietro ogni zaino c’è sempre un bambino che aspetta di essere sostenuto nel suo viaggio di crescita.

    Metodo in 7 tappe narrative per accompagnare il rientro a scuola per i bambini della primaria

    👉 Ecco 7 tappe narrative semplici ma potenti.

    1. Ascoltare prima di agire

    Il rientro a scuola non è solo organizzazione: è soprattutto emozione. Perciò, prenditi un momento per ascoltare come si sente tuo figlio. Domande semplici come “Cosa ti piace della scuola?” o “Cosa ti preoccupa?” aprono la strada al dialogo.


    2. Creare rituali di passaggio

    Dal ritmo lento delle vacanze alla routine scolastica serve un ponte dolce: un calendario colorato, un post-it motivante sullo zaino, oppure una colazione speciale il primo giorno. Piccoli gesti che, infatti, rendono il ritorno un evento atteso.


    3. Coinvolgere nella preparazione

    Non fare tutto tu: prepara insieme lo zaino, scegliete la copertina dei quaderni e organizzate lo spazio studio. Così il bambino si sente partecipe, rinforza la sua autonomia e, allo stesso tempo, impara la responsabilità.


    4. Raccontare la scuola come avventura

    Le parole creano mondi. Usa storie per descrivere la scuola come un luogo di scoperte e relazioni, non soltanto di regole. Ad esempio:

    “Sai che in geografia imparerai perché la Terra ha deserti e ghiacciai? È come viaggiare senza biglietto!”


    5. Riattivare la mente con giochi

    Prima del rientro a scuola, dedica qualche giorno a giochi che stimolano la mente: enigmi, letture divertenti o esperimenti scientifici facili. Così, infatti, l’apprendimento torna un piacere e non un obbligo.


    6. Allenare l’organizzazione

    Mostragli come gestire il tempo: un planner settimanale con orari di scuola, compiti e momenti liberi. Un bambino che vede la giornata “scritta” si sente più sicuro e, quindi, meno ansioso.


    7. Celebrarne i progressi

    Ogni piccolo passo merita riconoscimento: non solo i voti, ma soprattutto l’impegno. Una frase come “Ho visto che hai preparato lo zaino da solo, bravissimo!” vale più di mille rimproveri.

    TappaFocus
    1. AscoltareEmozioni prima dell’organizzazione
    2. RitualiTransizione dolce vacanze→scuola
    3. CoinvolgereZaino e spazio studio insieme
    4. NarrareScuola come avventura
    5. Giochi mentaliEnigmi, letture, esperimenti
    6. OrganizzarePlanner e gestione tempo
    7. CelebrareValorizzare impegno e progressi

    Perché funziona?

    Perché trasforma il rientro a scuola in un’esperienza di relazione e scoperta, non in un’imposizione. In questo modo, il bambino, si sentirà protagonista del suo percorso.

    👉 Autonomia e fiducia compaiono più volte nei miei scritti: lo faccio di proposito, per ricordare che sono le chiavi che aprono ogni porta del percorso scolastico.

    Quando tornare a scuola significa crescere: il delicato passaggio 12-14 anni

    Se la scuola primaria è il tempo delle radici, la scuola secondaria di primo grado rappresenta il tempo dei rami che iniziano a cercare la propria direzione. In questa fase i ragazzi sperimentano cambiamenti profondi: cresce la voglia di autonomia, emerge il bisogno di sentirsi unici e, allo stesso tempo, si fa spazio la paura di essere esclusi.

    Il gruppo dei pari diventa spesso più importante della famiglia. Tuttavia, è proprio qui che si gioca una sfida educativa delicata: come sostenere i figli senza invadere i loro spazi? Come garantire sicurezza lasciando margini di libertà?

    Per i genitori, questo significa imparare a bilanciare ascolto, guida e fiducia. Infatti, un sostegno troppo invadente rischia di soffocare, mentre un’assenza di attenzione può lasciare il ragazzo solo di fronte alle pressioni del gruppo.

    12–14 anni: leve educative per un rientro sereno

    Ecco tre punti chiave che, se applicati con costanza, aiutano i ragazzi a vivere il rientro a scuola come occasione di crescita.

    AreaCosa fare in pratica
    Ascolto attivoDomande aperte, senza giudizio (“Com’è andata?”). Accogliere emozioni.
    Autonomia guidataResponsabilizzare su compiti, sport, amicizie. Genitori come “base sicura”.
    Dialogo sui rischiParlare di bullismo e social senza allarmismi. Sviluppare senso critico.

    Valore dello studio e della conoscenza raccontato con emozione

    Studiare non significa soltanto ripetere una lezione o ottenere un voto. Al contrario, vuol dire scoprire, creare, dialogare e anche sbagliare. Ogni errore, se accolto, diventa un passo avanti nel percorso di crescita.

    Ogni materia è una porta aperta sul mondo:

    • la matematica allena la logica,
    • le scienze risvegliano la curiosità,
    • la geografia apre il cuore verso culture lontane.

    Tuttavia, tutto questo assume davvero valore solo quando si intreccia alla narrazione e alla creatività.

    Le fiabe, ad esempio, non sono semplici racconti. Sono strumenti educativi potenti che parlano di coraggio, trasformazione e ascolto. Leggerle o inventarle con i figli spalanca mondi e alimenta immaginazione. Una riflessione preziosa su questo tema la trovi in questo articolo di Rosa Rita Formica, dove la fiaba è descritta come un ponte tra generazioni e mondi interiori.

    Inoltre, quando la narrazione si fa teatro, musica o arte, lo studio smette di essere astratto per trasformarsi in esperienza concreta. Pensa, ad esempio, a un laboratorio scolastico: bambini che recitano una fiaba, dipingono un personaggio o compongono una filastrocca.

    L’ho visto anch’io, l’anno scorso, durante la mia esperienza come supplente nella scuola primaria: in quei momenti ho incontrato occhi che si accendevano e menti che si aprivano. Ed è proprio questa energia che la famiglia può continuare a coltivare anche a casa, trasformando la scuola in un viaggio emozionante di conoscenza.

    Sostegno e Innovazione: il Valore della/del Pedagogista Digitale

    Negli ultimi due anni ho affiancato due bambini per l’intero anno scolastico – e persino durante le vacanze estive – nel mio ruolo di Pedagogista Digitale. Non è stato solo un accompagnamento sui compiti, ma un vero e proprio sostegno personalizzato, capace di trasformare le difficoltà in occasioni di crescita.

    Ci incontravamo una volta a settimana. All’inizio c’erano paure e frasi che pesavano: “Non sono bravo in matematica”, “Non ce la farò”. Con il tempo, grazie a piccoli strumenti e a tanta fiducia, quelle convinzioni sono diventate energia positiva.

    Ricordo quando Marco, che faticava con le tabelline, ha iniziato a impararle usando giochi digitali e sfide creative. O quando Sara, che viveva la geografia come un incubo, ha cominciato a “viaggiare” con le mappe online, raccontandomi i suoi sogni di esploratrice.

    Il vero cambiamento non è arrivato da un voto alto, ma dalla loro crescente autonomia: preparare lo zaino senza ansia, organizzare i compiti con metodo, affrontare un esercizio con coraggio.

    👉 È in questi momenti che ho capito che il mio compito non è “insegnare”, ma accendere motivazione e curiosità.

    Essere Pedagogista Digitale significa trasformare il sostegno in innovazione: usare mappe mentali, app educative, esercizi creativi e, soprattutto, ascoltare e incoraggiare.
    L’obiettivo resta uno solo: costruire competenze di vita – autonomia, fiducia in sé e resilienza – che accompagnino il bambino a scuola e nella quotidianità.

    ✨ Essere Pedagogista Digitale significa

    • Unire innovazione e sostegno educativo.
    • Usare mappe mentali, app educative, esercizi creativi.
    • Ascoltare e incoraggiare con cura.
    • Costruire autonomia, fiducia e resilienza.
    Bambino svogliato al rientro a scuola
    Senza supporto lo studio può diventare frustrazione.
    Bambino seguito nello studio per affrontare la scuola con serenità
    Con un accompagnamento pedagogico, la scuola diventa scoperta e fiducia.

    Il mio compito non è “insegnare”, ma accendere motivazione e curiosità nei bambini, perché ogni conquista diventi vita, non solo scuola.

    Quanti bambini torneranno a scuola nel 2025-26?

    Qui i dati per chi vuole conoscere meglio il contesto.

    Scuola: I numeri in Italia – A.s. 2024–25 (dati ufficiali)

    Quanti saranno i bambini e i ragazzi che torneranno a scuola?
    I dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione e del Merito mostrano che, nell’anno scolastico 2024–25, gli iscritti nelle scuole statali sono stati circa 7.073.587 studenti.

    I numeri in Italia – a.s. 2024–25

    Ordine di scuolaAlunni iscritti
    Primaria (6–11 anni)2.170.746
    Secondaria di I grado (12–14 anni)1.498.498
    Totale scuole statali (tutti gli ordini)7.073.587

    (Fonte: MIM, GoStudent, Ufficio Scolastico Veneto)

    Perché i numeri calano?

    Secondo Orizzonte Scuola, il nuovo anno scolastico 2025–26 registrerà un calo di oltre 134.000 studenti rispetto al precedente.
    Si tratta di un trend che dura da anni e che non sembra destinato a fermarsi.

    Infatti:

    • la scuola primaria ha perso 300.000 alunni in otto anni, passando da oltre 2,5 milioni a circa 2,26 milioni nel 2022-2023
    • la secondaria di primo grado è scesa da 1,63 milioni a circa 1,55 milioni di iscritti nello stesso periodo.
    IndicatoreNota
    Variazione studenti totaliStima –134.000 rispetto al 2024–25
    PrimariaTrend in calo (–300.000 in ~8 anni)
    Secondaria di I gradoTrend in calo (da ~1,63 mln a ~1,55 mln)

    Le cause principali sono sia demografiche che sociali:

    • Calo delle nascite: nel 2022 ci sono state solo 393.333 nascite, il dato più basso dall’Unità d’Italia.
    • Invecchiamento della popolazione e riduzione delle donne in età fertile, responsabile per oltre l’80% del fenomeno.
    • Crisi economica e precarietà lavorativa: molti giovani rinviano la genitorialità per mancanza di stabilità (EduNews24).
    • Migrazioni interne ed esterne: lo spopolamento dei territori rurali e trasferimenti all’estero (INDIRE – Piccole Scuole) peggiorano il quadro.

    ✨ Dopo aver guardato i numeri, non fermiamoci solo alle difficoltà. Ogni sfida può diventare un’opportunità. Ecco alcune leve educative per il futuro:

    Uno sguardo propositivo
    AmbitoAzioni concrete
    GenitorialitàPolitiche concrete di sostegno alle giovani coppie.
    Piccole scuoleValorizzare le comunità educanti anziché chiudere le realtà locali.
    InnovazioneInvestire nella didattica e nella formazione degli insegnanti.

    Quanti studenti avranno un insegnante di sostegno nel 2025–26?

    I dati più recenti

    Nell’anno scolastico 2023–24, gli alunni con disabilità erano circa 359.000, pari al 4,5% degli iscritti (fonte: ISTAT). La percentuale sale oltre il 5,5% nella scuola primaria e secondaria di primo grado, cioè proprio nelle fasce che stiamo considerando.

    Inoltre, il numero è in crescita costante: +6% in un solo anno e +26% negli ultimi cinque.
    Questo significa che sempre più famiglie vivono l’esperienza della scuola in modo speciale, con bisogni educativi che richiedono collaborazione tra insegnanti, genitori e specialisti.

    Un dato che fa riflettere riguarda la formazione: sebbene il 73% dei docenti di sostegno abbia una preparazione specifica, ben il 27% non è ancora specializzato, con picchi più alti al Nord (SkyTG24).
    In aggiunta, la maggior parte degli alunni partecipa alle lezioni in classe (82%), ma le ore dedicate individualmente sono in media 2,9 a settimana.

    È evidente, quindi, che la vera inclusione non può essere delegata solo al docente di sostegno: deve diventare un progetto che coinvolge tutti.

    VoceDato
    Alunni con disabilità~359.000 (≈4,5% del totale)
    Primaria + Secondaria I grado≈5,5%
    Docenti di sostegno specializzati73% (27% non specializzati)
    Ore individuali (media sett.)2,9 ore
    Partecipazione in classe≈82%

    Inclusione oltre i numeri

    Dietro ogni percentuale c’è un bambino, una famiglia e un insegnante.
    La famiglia, perciò, non può restare spettatrice: deve diventare co-protagonista del percorso inclusivo.

    Ecco tre passi fondamentali per i genitori:

    PassoCosa fare in pratica
    Incontri periodici scuola-famigliaCondividere strategie educative tra insegnanti e genitori.
    Risorse esterneCoinvolgere assistenti, educatori e pedagogisti per garantire continuità educativa.
    Non restare soliGruppi di ascolto o consulenze dedicate non sono fragilità, ma forza.

    Un ragazzo seguito in modo coerente tra casa e scuola sviluppa più sicurezza e autonomia. Inclusione significa rete, non isolamento.

    Il sostegno non inizia solo quando ci sono difficoltà, ma quando decidiamo di camminare accanto ai nostri figli in ogni fase.


    L’ho ripetuto più volte in questo articolo e lo ribadisco qui: il rientro a scuola non è solo un obbligo, ma un’occasione di crescita che coinvolge tutto il sistema familiare ed educativo.

    🎯 Che bello tornare a scuola!

    Il rientro non è soltanto un calendario che ricomincia: è un ponte verso nuove scoperte.
    Ogni passo verso l’autonomia trasforma non solo il bambino, ma l’intero contesto in cui vive.

    La famiglia, infatti, è un sistema vivo e interconnesso: quando cambia un soggetto – che sia un figlio, un genitore o un insegnante – cambiano anche le dinamiche di tutti gli altri. È questo il cuore della pedagogia sistemica: riconoscere che la crescita individuale diventa crescita collettiva.

    Quando un bambino impara ad affrontare la scuola con fiducia, non cresce da solo: trascina con sé la famiglia, arricchisce la scuola e rinnova le relazioni intorno a sé.

    🎯 Che bello tornare a scuola!

    Vuoi che tuo figlio viva la scuola non come un obbligo, ma come un’opportunità per crescere con fiducia e curiosità?

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  • Una passione artistica spicca il volo nella seconda vita

    Una passione artistica spicca il volo nella seconda vita

    “Una passione artistica spicca il volo nella seconda vita”: la storia di Gianpaolo, che ha trasformato colori ad olio e tele in nuova linfa per la sua vita.

    Il momento della scintilla: la Passione Artistica che cambia la vita

    Ho scelto di intervistare mio fratello perché negli ultimi anni l’ho visto cambiare: ha superato prove difficili e ha trovato nuova linfa in una passione artistica travolgente. La sua storia ricorda che ogni età ha la sua forma di successo: per qualcuno i nipotini o la scrittura, per altri i viaggi, per altri ancora l’arte. Andiamo a conoscerlo meglio…

    Gianpaolo, ci racconti di quel giorno speciale: i colori a olio che ti hanno cambiato la vita. Cosa hai provato nel momento in cui li hai usati per la prima volta?

    «Era proprio in questo periodo, quattro anni fa, quando compivo sessant’anni. Andrea e Valentina, mio figlio e mia nuora, mi regalarono una scatola di colori a olio stupenda. La conservo ancora come una reliquia, con tutti i tubetti.
    Ero al mare e, all’inizio, non osavo aprirli: mi sembravano preziosi e difficili da usare.
    Già dipingevo acquerelli, ma l’olio era un’altra storia! Tornato a Milano, mi sono iscritto a un corso alla Galleria Crespi, vicino a Brera, Lì ho conosciuto il mio maestro, Massimo Fontanini, e ho iniziato a “impastare” davvero i colori.

    La magia dell’olio è proprio questa: non ti limiti a stendere la tinta, ma la mescoli sulla tavolozza o direttamente sulla tela, anche a quadro iniziato. Puoi trasformare un giallo in una tonalità più calda o scura con un tocco di blu o di rosso.
    Quell’atto di impastare, di lavorare con le mani e la mente insieme, ti porta esattamente alle sfumature che cerchi.»

    Come hai trovato il corso giusto?

    «Sono stati Andrea e Valentina a dirmi che, nel negozio dove avevano comprato la scatola di colori, organizzavano anche corsi serali. Per me, che lavoravo di giorno, era l’ideale.

    Da allora, e sono passati quattro anni, continuo a frequentare. Non è solo pittura: è amicizia, confronto, aiuto reciproco. Siamo una decina di persone e ci scambiamo consigli e idee.

    Col tempo il cerchio si è allargato. Ho conosciuto altri gruppi di pittori, anche in Versilia.

    In questi giorni, ad esempio, dipingerò al Lido di Camaiore alla Galleria Europa durante una mostra Ecce Homo-Ecce Mare: saremo lì, davanti ai passanti, a creare insieme e a suscitare curiosità.»

    Mostra Galleria Europa - Lido di Camaiore - 11 Agosto 2025 - gPaolo.Art in azione (www.gpaolo.art)
    Mostra Galleria Europa – Lido di Camaiore – 11 Agosto 2025 – gPaolo.Art in azione (www.gpaolo.art)

    L’incontro tra Ragione e Passione Artistica

    Hai vissuto per anni nella tecnologia e nell’impresa: come hai accolto in te quella voce silenziosa fatta di emozione, intuizione e colore? Come si sono mescolate tra loro?

    «Mi è sempre piaciuto disegnare. Con l’acquerello provavo già il piacere di trasformare un soggetto in colore, ma erano momenti rubati a un lavoro che occupava tutto il mio tempo.

    Oggi è diverso: passo due ore e mezza, tre alla settimana in atelier, più il sabato e la domenica nello spazio che mi sono creato in casa. La passione artistica è cresciuta al punto da superare quella lavorativa.

    Se potessi, mi dedicherei solo a questo. Capita spesso che arrivi a mezzanotte ancora davanti alla tela, senza accorgermi del tempo che passa. È qualcosa che mi travolge.»

    Tecnologia e arte: un’unione possibile.

    Quella tua vena tecnologica pensi di metterla anche nell’arte?

    «Sì. Non rinnego l’uso dell’intelligenza artificiale per creare alcuni quadri.
    Spesso parto da soggetti fotografati da me e uso l’AI per suggerire modifiche: luci, ombre, colori.
    L’olio resta un gesto fisico, soprattutto con la spatola, ma la tecnologia mi aiuta a studiare e progettare il soggetto.

    Non sono un integralista: se un’immagine ha errori di proporzione o prospettiva, li correggo subito. Così la base è solida. Non mi scandalizza usare griglie o riferimenti: sono un aiuto, non un limite.»

    Un Artista sperimentatore

    Si può dire che sei uno sperimentatore di tecniche e creatività?

    «Sono sempre stato uno sperimentatore. Anche nella vita professionale mi sono spesso mosso in territori inesplorati: quarant’anni fa ero già tra i primi a lavorare con le reti di computer.

    Questa attitudine oggi mi aiuta anche nell’arte.
    Due anni fa, ad esempio, mi sono creato il sito gPaolo.art direttamente dalla spiaggia, con il PC sulle ginocchia, caricando le foto delle mie opere.

    La tecnologia è un ponte verso nuove opportunità: molte esposizioni a New York o Barcellona sono arrivate grazie ai social e ai contatti online. Ho conosciuto persone importanti, come Daniela Rambaldi, figlia del creatore di E.T.(Carlo Rambaldi). Comunicare velocemente ciò che facciamo è una ricchezza, e la passione artistica trova nuovi spazi per crescere anche così.»

    Il Processo Creativo nella Passione Artistica

    Com’è il momento in cui nasce l’idea di un quadro? Ti guida un’emozione, una luce, un ricordo? E come si traduce sulla tela?

    «L’opera che sto realizzando adesso nasce da una fotografia scattata dai miei figli a Chioggia.
    Mi ha colpito subito la luce: le barche sui canali, gli edifici colorati che si riflettono sull’acqua, un cielo azzurrissimo.
    Il colore è il primo richiamo per me: quando una fotografia racchiude quei toni che sento miei, scatta la voglia di portarli sulla tela.

    Amo i paesaggi e li dipingo spesso. Le figure umane, invece, mi mettono ancora un po’ alla prova: è un ambito su cui voglio esercitarmi di più.

    In questo periodo sto studiando il futurismo, grazie ad alcuni amici pittori conosciuti in Versilia, sto sperimentando nuove tecniche pittoriche, che arricchiscono la mia passione artistica

    Un’immagine che diventa narrazione

    Puoi raccontarci un’opera che nasce da un’ispirazione forte e personale?

    «Il quadro Il nonno e il nipotino è nato in un mattino di dormiveglia.
    Avevo in mente l’immagine di una casetta, sormontata da un larice piegato dal vento, e l’ho descritta con precisione a ChatGPT, aggiungendo piccoli dettagli, fino a ottenere l’esatta rappresentazione che avevo in mente.

    Poi, durante le ore di lezione all’atelier, l’ho riprodotta a spatola, trasformandola in un quadro di grande forza espressiva

    Le reazioni sono state diverse: c’era chi vedeva nell’albero un segno di paura e chi, invece, un gesto di protezione verso la casa. Così ho scelto il titolo Il nonno e il nipotino, immaginando il nonno che accompagna il piccolo all’inizio del suo viaggio nella vita.»

    Una-passione-artistica-spicca-il-volo-nella-seconda-vita-Il-Nonno-e-il-Nipotino (www.gpaolo.art.it)
    Il Nonno e il Nipotino. Nata in atelier senza preparazione della tela: disegno a mano e colori immediati. In 15 ore, la passione artistica ha guidato ogni gesto.

    L’emozione di finire un’opera: la Passione Artistica alla prova

    Quando concludi un dipinto e lo guardi completo per la prima volta, cosa provi? È più pace, orgoglio, sorpresa… o un mix di tutto?

    «La tentazione è finire in fretta, ma è un errore.
    Il mio maestro, Massimo Fontanini, ripete sempre di prendersi il giusto tempo: fermarsi, allontanarsi, osservare i dettagli e rivederli uno a uno.

    Un quadro, in realtà, non è mai davvero “finito”: potrei riprenderlo anche dopo mesi. A un certo punto, però, decido di chiuderlo, altrimenti non smetterei mai.

    La sorpresa più grande è quando riesco a rendere esattamente ciò che avevo in mente, a volte con colori che non pensavo di riuscire a creare. Questo è il bello dell’olio: permette sfumature che non esistono in natura, ma diventano perfette sulla tela.

    Di solito porto avanti due opere alla volta: una all’atelier e una a casa. E ora, anche qui al mare, c’è un nuovo quadro su cui sto lavorando.»

    L’Esposizione. Condividere la Passione Artistica con il Pubblico

    Hai già portato le tue opere in mostre a New York, Barcellona, Viareggio e tante altre città. Che significato ha per te condividere il frutto del tuo lavoro con le persone?

    «Esporre è orgoglio, ma anche curiosità. Mi piace osservare da lontano chi si ferma davanti a un mio quadro: se resta qualche secondo in più o inclina la testa, mi avvicino e svelo di esserne l’autore.

    A New York, ad esempio, ho presentato un’opera con una piccola scultura di King Kong in ceramica applicata sulla tela, raffigurante lo skyline visto da Brooklyn intitolato “I Guerrieri della Luce”. Ha incuriosito molto i visitatori. Successivamente il quadro è stato esposto a Vibo Valentia, nella mostra collettiva Art Exchange: America & Italy. È arrivato intatto, con il piccolo King Kong perfettamente al suo posto: un’attenzione ai dettagli che mi ha colpito.

    Vedere le persone avvicinarsi per osservare i particolari mi conferma quanto materia e tecnica contino. L’acquerello è bello, ma rimane piatto, come una fotografia. L’olio, invece, ha una luce diversa: attraversa lo spessore del colore e riflette in modo unico. E quando lavoro a spatola, la materia diventa ancora più viva: è questo che affascina chi guarda.»

    Cambiamento Interiore: come la Passione Artistica trasforma la Vita

    Guardando indietro, senti che questa passione ti ha trasformato? In che modo ti ha arricchito, non solo come artista, ma anche come persona?

    «Se avessi fatto l’artista fin dall’inizio, forse oggi non sarei così felice.
    È proprio il percorso di vita precedente che mi permette di dedicarmi ora, con totale entusiasmo, a questa passione artistica. Il lavoro mi ha dato stabilità e mi ha preparato questo spazio di libertà.

    Oggi la pittura mi coinvolge molto più di qualunque altra attività. È una passione che, man mano che si avanza con l’età, diventa un motore vitale.

    Il lavoro, con il tempo, può diventare alienante. L’arte, invece, ti coinvolge a 360 gradi: che sia dipingere, scrivere, cantare o recitare, ti immerge completamente. Non sempre ci si può vivere, ma quando diventa parte della tua vita, cambia tutto.

    Un messaggio per chi sogna una seconda vita

    Tu che valore attribuisci oggi alla tua storia e alla tua espressione artistica? E quale messaggio vorresti dare a chi, anche in età adulta, sogna di far volare un progetto che ha nel cassetto?

    «Bisogna prepararsi all’età adulta, come l’hai definita tu.
    Non puoi pensare solo a lavorare: quando il momento arriva — per scelta o per necessità — devi avere già una strada da percorrere. Che sia la pesca, la bicicletta o dipingere, serve una passione vera, non qualcosa da fare “con la mano sinistra”.

    All’inizio c’è sempre un momento difficile, come davanti a un foglio bianco. Poi, man mano che entri nel lavoro, la passione cresce e ti trascina. È fondamentale avere un’attività che motivi, dia soddisfazione e comporti anche un po’ di fatica. Così, invece di deprimerti, ti prepari a una nuova fase della vita.

    In che modo questa passione ti ha portato verso le persone?

    Fare l’artista non ha senso se nascondi le opere in un angolo: bisogna avere il coraggio di mostrarle. Vale per la pittura, ma anche per il teatro o la musica: se non sali sul palco, resti chiuso in te stesso.

    Mettersi in gioco significa accettare critiche e reazioni inattese. Ho visto persone comprare quadri che a me non piacevano o che il mio maestro non riteneva riusciti. Questo mi ha insegnato che la percezione è personale e che ogni opera può trovare il suo pubblico.

    Esporsi crea legami. Da quando dipingo, ho conosciuto artisti, amici e appassionati che prima non facevano parte della mia vita: una nuova rete di relazioni che arricchisce tanto quanto il dipingere stesso.»

    Dal lavoro paziente all’ispirazione fulminea: due volti della passione artistica

    Ogni quadro racconta una storia: c’è quello nato da settimane di lavoro lento e meticoloso, e quello che prende vita in poche ore, spinto dall’ispirazione del momento.
    In questa galleria, Gianpaolo ci porta dentro il suo processo creativo — tra luce, colore e materia — mostrando come la passione artistica possa avere forme diverse, ma sempre autentiche. (clicca sull’immagine per entrare nel sito gPaolo.art.it)

    Un inno alla vita semplice…

    Questa intervista è un viaggio nella trasformazione di un uomo che ha trovato nell’arte una seconda vita, più libera e luminosa.
    La storia di Gianpaolo ci ricorda che il talento può sbocciare in ogni stagione della vita e che coltivare una passione significa regalarsi una nuova prospettiva sul mondo.

    Proprio come nell’ultimo quadro che ci ha mostrato — l’uccellino sospeso in volo sopra pane e vino — c’è un messaggio semplice e potente: celebrare le cose essenziali, vivere con leggerezza e trovare bellezza anche nei gesti più quotidiani.
    Un vero inno alla vita semplice… alla ricerca della propria passione artistica!

    Una-passione-artistica-spicca-il-volo-nella-seconda-vita-Inno-alla-vita-semplice-612x1024 (www.gpaolo.art.it)
    L’uccellino sospeso in volo sopra pane e vino: un invito a celebrare le cose essenziali, vivere con leggerezza e cercare la propria passione artistica. (www.gpaolo.art.it)

    💬 Qual è il tuo “inno alla vita semplice”?

    Può essere un viaggio, un profumo, un ricordo… o una passione che aspetta di volare.
    Come l’uccellino sospeso nel quadro di Gianpaolo, anche la tua storia può prendere il volo e raccontare chi sei davvero.

    Prenota un incontro gratuito per conoscerci: trasformeremo insieme i tuoi ricordi in un racconto unico, che sia un’intervista pedagogica o una biografia completa.

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  • Chiedere “Ciao, Come stai?”: Parole che Educano

    Chiedere “Ciao, Come stai?”: Parole che Educano

    Chiedere “ Ciao, come stai?” con intenzione cambia il modo di ascoltare e relazionarsi. Una guida educativa e autobiografica per riscoprire questa domanda.

    “Ciao, come stai?” – La domanda più semplice che può aprire un mondo

    Hai mai riflettuto sul vero significato di una domanda così quotidiana, così automatica, eppure così potente?
    “Ciao, come stai?”
    Tre parole che ci scambiamo ogni giorno, decine di volte.
    Talvolta dette per educazione, altre volte per abitudine. Ma raramente, davvero raramente, con intenzione autentica.

    Per molto tempo, anche per me era solo una formula di cortesia.
    Poi un giorno, qualcuno mi fece notare che se non ero pronta ad ascoltare davvero la risposta, quella domanda non aveva alcun valore.
    È stato un momento di consapevolezza.
    Da quel giorno, quando chiedo “Come stai?”, lo faccio solo se sono disposta a fermarmi, ad ascoltare, a creare uno spazio vero per l’altro/a.

    Da quella domanda possono nascere molte cose:

    • un racconto di vita
    • un’emozione rimasta incastrata
    • una risposta rapida che chiude ogni porta

    Può esserci un “bene” detto per tagliare corto, un “male” sussurrato per vedere se davvero ti interessa, oppure un “incasinata” che ti spiazza.
    E ci sono anche quei silenzi che dicono tutto.
    Ma se non sei pronto ad accoglierli, quel dialogo non inizierà mai.


    🎓 Il valore educativo del chiedere “Come stai?”

    Dal punto di vista pedagogico, chiedere “Come stai?” non è mai solo una formalità.
    È un gesto relazionale che può generare cambiamento, a patto che sia accompagnato da intenzione, attenzione e presenza.

    Quando ci rivolgiamo così a un bambino, a un adolescente, a un adulto in difficoltà o semplicemente a una persona cara, non stiamo solo aprendo un dialogo.
    Stiamo riconoscendo l’altro nella sua esperienza emotiva.
    Gli stiamo dicendo, senza dirlo:

    “Tu per me conti. Come ti senti ha valore.”

    In questo senso, il “come stai” è una domanda che educa perché:

    • stimola il pensiero riflessivo
    • favorisce la consapevolezza emotiva
    • apre spazi di narrazione personale
    • rafforza la fiducia tra chi domanda e chi risponde

    Tutto questo è possibile solo se siamo disposti a metterci in ascolto reale.

    L’ascolto vero, infatti, non giudica, non corregge, non interpreta subito.
    Accoglie.
    Lascia che l’altro esprima ciò che sente, con le parole che ha a disposizione.
    Anche solo un “mah… non lo so”, se ascoltato con attenzione, può essere l’inizio di una narrazione che aspetta da tempo di emergere.

    Come pedagogista, lo vedo ogni giorno: le relazioni più efficaci nascono da domande semplici, ma poste al momento giusto, con il tono giusto e soprattutto con il cuore giusto.

    💬 “Bene”, “male”, “insomma”: ogni risposta è un mondo

    Chiedere “Come stai?” con intenzione è solo il primo passo.
    Il secondo – spesso il più difficile – è restare davvero presenti nella risposta, anche quando è spiazzante, breve o muta.

    Alcune risposte sembrano chiudere la conversazione:

    • “Tutto bene” (detto in automatico)
    • “Mah… si tira avanti”
    • “Incasinata, come sempre”
    • “Lasciamo perdere”

    Ma dietro queste frasi, spesso si nascondono:

    • tentativi di protezione (“Non voglio aprirmi ora”)
    • inviti silenziosi (“Chiedimi ancora, ma con delicatezza”)
    • oppure barriere relazionali già costruite nel tempo

    E poi c’è il silenzio.
    E anche il silenzio è una risposta.
    A volte è una chiusura, altre volte è un segnale di attesa.
    Il punto non è riempirlo, ma rispettarlo.

    Quando arriva invece una risposta autentica, anche semplice come:

    • “Oggi non è giornata”
    • “Sono felice ma anche un po’ stanco”
    • “Sto affrontando qualcosa di grande”

    …si apre un’opportunità preziosa, un varco narrativo da attraversare con rispetto.
    È lì che nasce la relazione educativa: quando accogliamo ciò che l’altro ha deciso di affidarci, anche se è scomodo o difficile da contenere.

    Le risposte alla domanda: Ciao, come stai. Parole che educano
    Esempi di risposte alla domanda: Ciao, come stai? Parole che educano

    🚪 Quando “Come stai?” non viene chiesto: assenza, chiusura, difesa

    Ci sono persone che non pongono mai questa domanda, nemmeno quando sarebbe naturale — o necessario — farlo.
    E questo silenzio può farci sentire trasparenti, non considerati, esclusi.

    Nel tempo ho imparato che non è sempre mancanza di educazione.
    Spesso, dietro questa assenza, si nascondono:

    • timori profondi (e se poi l’altro mi racconta qualcosa che non so gestire?)
    • ferite antiche (Persone non ascoltate da piccole, che hanno imparato a non parlare di ciò che sentono)
    • un atteggiamento difensivo (“Non voglio farmi carico delle emozioni dell’altro, già ho le mie”)

    Chi evita questa domanda, a volte ha vissuto delusioni relazionali: si è sentito tradito o ignorato da chi avrebbe dovuto esserci.
    E allora ha chiuso quella porta, per proteggersi.

    Altre volte, invece, si tratta di un egocentrismo inconsapevole:
    c’è chi si aspetta presenza, ma non la offre.
    Chi vive le relazioni come se spettasse sempre all’altro chiedere, esserci, capire.

    Ma le relazioni non funzionano a senso unico.
    E chi non è disposto a vedere davvero l’altro/a, a compiere anche solo un gesto di apertura, finisce per perdere pezzi di umanità condivisa.

    Questa parte dell’articolo non vuole giudicare, ma comprendere.
    Anche chi non riesce a dire “Come stai?” ha probabilmente una storia da raccontare.
    E forse, con il tempo e con la giusta vicinanza, potrà riscoprire il valore di quella domanda – partendo da sé.

    Quando conosci già la risposta, ma chiedi lo stesso

    Ci sono momenti in cui sappiamo già che l’altro sta male.
    Una perdita, una malattia, una separazione, un periodo difficile.
    E allora ci chiediamo: ha senso domandargli “Come stai?” se so già che soffre?
    A volte temiamo di ferire, di toccare una ferita ancora aperta.
    Altre volte pensiamo: “Tanto non vorrà parlarne”.

    Eppure, se quella domanda è posta con autenticità, può diventare un messaggio silenzioso ma potente:

    “Io ci sono. Anche se non vuoi raccontarmi nulla adesso.”

    E l’altro, sentendosi visto e non forzato, può percepire che quella domanda era vera e, forse, un giorno tornerà su quel sentiero di parole lasciato aperto.

    È un gesto che comunica presenza e libertà.
    Libertà di non rispondere, di dire solo “non va” e di raccontarsi più tardi, o mai.

    La relazione educativa nasce così: nel rispetto profondo del tempo dell’altro.

    🔁 Quando chiedi “Come stai?”, ma non ascolti davvero

    C’è una modalità più sottile, ma altrettanto dolorosa:
    quella di chi pone la domanda “Come stai?” per abitudine, o per introdurre se stesso.

    A volte rispondi con sincerità, magari aprendo un piccolo spiraglio.
    E subito vieni interrotto:

    • “Ah guarda, anche a me è successa una cosa simile!”
    • “Sì sì, ma sai cosa è successo a me?”
    • “Vedrai, passerà… comunque io…”

    In questi casi, la domanda iniziale non era un invito all’ascolto, ma un trampolino per deviare la conversazione su di sé.

    Spesso non c’è malizia, solo un’ingenuità relazionale.
    C’è chi è così carico di emozioni non elaborate — da dire, da condividere, da sfogare — che l’altro diventa, inconsapevolmente, uno specchio o un contenitore.

    In altri casi, la domanda sembra gentile, ma cela un giudizio implicito: si cerca solo una conferma ai propri pensieri, un dettaglio che incastri l’altro in un’etichetta già pronta.

    In tutte queste situazioni non c’è vero ascolto.
    Solo una messa in scena relazionale.

    Ecco perché chiedere “Come stai?” non basta.
    Serve anche fermarsi.
    Accogliere davvero.
    Lasciare spazio, anche al disagio, anche a ciò che non capiamo fino in fondo.

    Altrimenti, quella domanda — che potrebbe essere un gesto di cura —
    si riduce a una formula vuota.
    E, come ogni maschera, prima o poi si sgretola.

    🧒🏻 Quando chiedi “Come stai?” ad un bambino: il suo sguardo si accende

    C’è qualcosa di profondamente autentico nel modo in cui un bambino reagisce a questa domanda:
    “Come stai?”

    Se posta con attenzione sincera e con il cuore, spesso nei suoi occhi compare una luce diversa.
    Si sente riconosciuto.
    Non solo come studente, figlio o “da gestire”, ma come persona che prova, percepisce, merita ascolto.

    A volte risponde con entusiasmo:

    • “Bene! Ho fatto una cosa bellissima!”
    • “Sto imparando a leggere!”
    • “Ho giocato tutto il giorno!”

    Altre volte, invece, si manifesta un’emozione forte:
    rabbia, tristezza, paura.

    Anche in quei casi, sentirsi accolto nel suo sentire lo aiuta a riconoscere, nominare e condividere ciò che prova.

    Per lui, un “come stai?” autentico è una porta che si apre.
    È la conferma che ciò che sente ha valore, non solo spazio.

    Ma se quella domanda non arriva mai…oppure viene posta con fretta o distrazione, senza uno sguardo vero, quel bambino potrebbe iniziare a trattenere.

    A chiudersi. A pensare che le emozioni non interessano a nessuno.

    E può succedere che, da adulto, diventi una di quelle persone che non chiedono più “come stai” a nessuno.

    Perché nessuno gliel’ha chiesto davvero quando contava.
    Perché nessuno gli ha insegnato che i sentimenti meritano spazio.

    Ecco perché, anche nella relazione educativa, non possiamo ignorare il potere di questa domanda.

    Se posta con intenzione autentica e senza giudizio, può diventare un’ancora silenziosa, una piccola rivoluzione quotidiana.
    Un gesto che educa… semplicemente, alla Cura.

    Come chiedere “Come stai?”: parole che educano: I bambini

    📚 Chiedere “Come stai?” con consapevolezza: una pratica educativa documentata

    Diversi studi nella psicologia relazionale e nella pedagogia riflessiva confermano che la qualità delle domande che poniamo e la modalità con cui ascoltiamo le risposte hanno un impatto profondo sulle relazioni, sull’empatia e sul benessere emotivo:


    ✅ Guida pratica: 5 gesti per ascoltare davvero

    #PassaggioFondamento teorico / Ricerca
    1Mettiti nel presente L’ascolto empatico richiede presenza autentica: solo così possiamo davvero “sentire” l’altro.
    2Cura il tono della voce Daniel Goleman, nel libro Intelligenza emotiva (1995), evidenzia come tono, ritmo e intonazione siano strumenti fondamentali per comunicare empatia. Approfondisci su PositivePsychology.com.
    3Rispetta il silenzio Il listening attivo e le tecniche di reflective listening insegnano che il silenzio è uno spazio comunicativo da accogliere, non da riempire.
    4Offri uno spazio, non una pressione I modelli relazionali consapevoli proposti da Daniel Siegel invitano a porre domande aperte e rispettose. Scopri di più su drdansiegel.com.
    5Non cercare subito soluzioni Martin Buber, nella pedagogia del “Io–Tu”, ci ricorda che la relazione autentica nasce dall’incontro, non dal consiglio. Approfondisci su Stanford Encyclopedia of Philosophy.

    🌙 L’ultima domanda che ci possiamo fare: Come sto?

    Questa riflessione non è nata da un libro, né da una teoria.
    È nata da me.
    Una mattina molto presto, quando il giorno non era ancora cominciato.

    Erano le 4:52.
    Mi sono svegliata con un nodo in gola e una domanda che mi girava in testa:
    “Come sto?”

    Non avevo una risposta precisa.
    Eppure sentivo che da quella domanda dipendeva qualcosa di importante:
    il mio equilibrio.
    O forse, il mio bisogno di ritrovarlo.

    Ho fatto quello che faccio quando le emozioni si accavallano: mi sono messa a scrivere.
    Scrivere per ascoltarmi. Per sentirmi vera. Per stare meglio.

    E proprio scrivendo ho compreso quanto questa domanda, così semplice e così umana, sia anche educativa, autoriflessiva, autobiografica.

    Tutto parte da lì.
    Dal modo in cui ci rivolgiamo a noi stessi.
    Il permesso che ci diamo di sentirci – bene, male, stanchi, pieni, confusi.
    Dal coraggio di stare in quella domanda, senza dover trovare subito una risposta.

    Solo chi si allena a questo ascolto interiore, può poi offrirlo anche agli altri.
    Senza forzature. Senza giudizi. Con presenza.

    Ed è proprio da quel momento che è nato questo articolo.
    Dal desiderio di trasformare una domanda in un ponte.
    Un gesto quotidiano in un atto intenzionale.
    Una formula automatica, in un gesto di educazione alla Cura.


    💬 E adesso, ti va di provare?

    Hai mai pensato a quanto può essere profonda questa domanda?
    Prova a chiedertelo, oggi: Come sto davvero?
    E poi, se ti va, chiedilo anche a chi hai vicino. Ma con intenzione.

    Prevenire con Cura, Supportare con Passione.

    Se questo articolo ti ha fatto riflettere e vuoi scoprire di più sul mio lavoro,
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  • Alleanza Familiare: Suocera e Nuora, quando è vincente?

    Alleanza Familiare: Suocera e Nuora, quando è vincente?

    Chiedersi se l’alleanza familiare tra suocera e nuora sia vincente è una riflessione autentica e pedagogica sul legame intergenerazionale tra donne. L’obiettivo non è negare le difficoltà, ma comprendere come superare i conflitti e creare nuove possibilità relazionali.

    Quando parlo di alleanza familiare, intendo una forma di cooperazione affettiva e relazionale tra generazioni — non un’assenza di conflitti, ma la volontà di affrontarli con rispetto e consapevolezza.

    C’è un filo invisibile che unisce donne di epoche diverse, spesso intrecciato tra silenzi, incomprensioni e attese.
    Quel filo passa, a volte, tra due figure: suocera e nuora.
    Un binomio che, nella narrazione comune, evoca distanze, ma che può diventare alleanza.
    Spesso questo legame viene raccontato attraverso stereotipi: rivalità, incomprensioni, diffidenza.
    Ma se provassimo a guardarlo da un altro punto di vista?

    Questo articolo nasce da una riflessione personale e professionale. E da una convinzione: anche tra differenze profonde può nascere un’alleanza educativa e affettiva, capace di rafforzare il benessere di tutta la famiglia.

    Lo so perché, nella mia storia, non è stato così.

    Alleanza familiare: Quando la Relazione si Complica

    Tra me e mia suocera c’erano più di 35 anni di differenza.
    Due mondi lontani, due storie segnate da epoche irripetibili: lei cresciuta durante il fascismo e nel dopoguerra, io nell’Italia post-femminista.
    Diversi i riferimenti culturali, l’educazione ricevuta, le abitudini quotidiane, perfino il modo di esprimere le emozioni.
    Eppure, eravamo entrambe donne. Entrambe madri.

    Non è bastato.
    Il peso delle famiglie d’origine, l’assenza di un compagno capace di fare da ponte tra noi, e la difficoltà a costruire una distanza sana e rispettosa hanno contribuito a incrinare la mia relazione coniugale.

    A rafforzare questa percezione non è solo la mia esperienza.
    La psicologa di Cambridge Terri Apter, in uno studio su 163 persone, ha rilevato che oltre il 60 % delle donne sposate considera la relazione con la suocera fonte di stress duraturo, contro appena il 15 % degli uomini.
    Un dato significativo, che evidenzia come questo legame femminile sia spesso il più teso e complesso tra le relazioni familiari.
    👉 Fonte: Leggi l’articolo completo di Terri Apter

    Ma il punto non è cercare colpe.
    Il vero nodo è l’assenza di strumenti per affrontare le differenze, e la fatica nel dare un nome alle emozioni che emergono quando generazioni, valori e visioni della famiglia si incontrano — o si scontrano.

    Alleanza familiare possibile? Sì, ma serve un cambio di sguardo

    Non tutte le relazioni tra suocera e nuora sono destinate al conflitto.
    Esistono anche forme di solidarietà silenziosa tra donne, capaci di generare fiducia e rispetto all’interno della famiglia, anche in modi inattesi.

    A volte, queste alleanze non si costruiscono tra suocera e nuora, ma attorno a loro: tra figure femminili adulte che, pur non essendo legate da vincoli diretti, si riconoscono nel desiderio comune di custodire un equilibrio familiare.
    Due donne che si ascoltano, si rispettano nei tempi e negli spazi, senza invadere.
    Quando si mette da parte il bisogno di controllo e si lascia spazio alla relazione, qualcosa si scioglie.
    E in quel clima più disteso, anche il legame madre-figlio, o nuora-suocera, può respirare meglio.

    Anche la ricerca lo conferma.
    Uno studio condotto da Christine E. Rittenour e Jordan Soliz (2009) ha coinvolto 190 nuore e ha rilevato che, quando la suocera condivide esperienze personali e adotta uno stile comunicativo autentico, si rafforza il senso di appartenenza familiare e si favorisce un clima di fiducia e complicità.
    Questo tipo di narrazione contribuisce a migliorare la soddisfazione relazionale e a promuovere comportamenti di supporto all’interno della famiglia.
    👉 Fonte: Communicative and Relational Dimensions of Shared Family Identity…, ResearchGate

    Alleanza familiare: suocera e nuora, quando è vincente? il gioco insieme
    Alleanza familiare: Suocera e Nuora, quando è Vincente? Attraverso equilibrio, complicità e fiducia

    Uno sguardo pedagogico: il contesto originario conta

    Ogni alleanza familiare si costruisce anche sulla base delle storie che ci precedono.
    Le immagini interiorizzate di madre, padre, donna e uomo influenzano profondamente i nostri legami, anche quando crediamo di essercene affrancati.

    Nella mia esperienza, ho osservato quanto le differenze educative e culturali tra generazioni — tra mia madre, figlia di una maestra emancipata, e mia suocera, ancorata a un modello più tradizionale — abbiano inciso non solo sulle loro relazioni, ma anche sulla mia, di coppia e di madre.

    Oggi molte coppie si definiscono paritarie, ma senza una riflessione sulle proprie radici, anche i legami più solidi possono vacillare.
    Riconoscere ciò che ci portiamo dentro è il primo passo per costruire un’alleanza familiare consapevole, capace di evolversi attraverso le differenze.
    Non serve a cercare colpe, ma a comprendere, scegliere e trasformare.

    👉 Ne parlo più approfonditamente in questo articolo su cosa significa sposarsi oggi, tra aspettative, differenze e possibilità di crescita condivisa.

    Perché l’Alleanza tra Donne è un Atto Politico e Pedagogico

    Sì, politico.
    Perché ogni volta che due donne si alleano — in famiglia, nella società, nella scuola — si crea uno spazio di cura che contrasta la logica della competizione.
    Un gesto silenzioso ma rivoluzionario, che cambia il modo di abitare le relazioni.

    Quando:

    • una suocera e una nuora scelgono di parlarsi invece che spiarsi,
    • si contengono con rispetto, anche senza somigliarsi,
    • si accettano senza giudicarsi

    non solo si rafforza la relazione familiare, ma si trasmette ai figli un modello di coesistenza possibile.
    Una testimonianza viva che l’amore — quello con la A maiuscola — non è solo nella coppia, ma anche nella qualità dei legami che la coppia sa custodire attorno a sé.

    ✏️ Cosa possiamo fare oggi?

    Per le giovani coppie.
    Chi è alle prese con l’arrivo di un figlio.
    Per chi vive in mezzo a dinamiche familiari complesse, o accanto a una suocera che sembra “difficile”…

    Ecco qualche spunto. Piccoli gesti, che possono cambiare il modo di stare insieme:

    🔸 Fai un passo indietro, e uno di lato.
    Osserva da dove vieni, prima di giudicare dove vuoi andare. Le origini non vanno negate: vanno comprese.

    🔸 Prova a nominare le differenze.
    Non per superarle a tutti i costi, ma per capirle. E magari accoglierle come parte del quadro.

    🔸 Proteggi la tua relazione di coppia, ma senza costruire muri.
    Puoi mettere confini, senza escludere. L’intimità non ha bisogno di isolamento, ma di verità.

    🔸 E se sei una suocera, scegli di raccontarti.
    Non imporsi. Raccontarsi, è un atto di fiducia: può ispirare più di mille consigli.

    “Le storie familiari che ci raccontiamo in famiglia non servono solo a ricordare, ma a ritrovarsi.”

    La Memoria Familiare come alleata

    Scrivere questo articolo è stato un modo per fermarmi e riflettere su un ruolo che oggi sento mio: essere suocera.
    Un ruolo nuovo, delicato, spesso frainteso.
    E come ogni ruolo che riguarda la famiglia, merita ascolto, confronto, possibilità.

    Mi sono accorta che tante coppie — soprattutto nei primi anni da genitori — si trovano a fare i conti con dinamiche sottili, faticose, a volte invisibili
    che affondano le radici nelle storie familiari, nelle aspettative, nei silenzi mai nominati.

    In queste pieghe invisibili si gioca spesso la possibilità di costruire un’alleanza familiare più autentica, fatta di ascolto, riconoscimento reciproco e rispetto dei confini.

    Nelle Biografie Pedagogiche che raccolgo con esperienzanarrata, spesso mi capita di incontrare storie “sospese” tra generazioni.
    Storie di donne che non si sono mai dette nulla, ma che si sono portate dentro per anni.
    Dare voce a quei legami, trasformarli in narrazione, è già un atto di cura.
    Perché ogni storia che condividiamo può avvicinarci un po’ di più.

    💬 E tu? Hai vissuto una relazione familiare complessa, oppure un legame che ti ha insegnato qualcosa?
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    Ti ascolto volentieri. Anche solo per iniziare a parlarne.

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  • Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami

    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami

    Cosa significa sposarsi oggi? Una riflessione personale e professionale sul significato del matrimonio oggi, tra cambiamenti culturali e nuove forme di legame.

    Cosa significa Sposarsi Oggi, nel ventunesimo secolo?

    C’è un momento nella vita in cui, anche se sei madre, pedagogista, o donna già passata attraverso un matrimonio, ti ritrovi a riflettere profondamente su cosa voglia dire sposarsi oggi.

    Sposarsi oggi non è più un gesto scontato, né un obbligo sociale.
    In un tempo dove tutto cambia velocemente, anche il significato del matrimonio si trasforma: le forme sono molteplici, le aspettative diverse, le promesse forse più consapevoli, ma anche più fragili.

    Da pedagogista, da madre, e da donna che ha attraversato il matrimonio e un divorzio, ho vissuto da vicino una recente esperienza familiare che mi ha portato a riflettere profondamente su questo tema.

    Ho deciso di scrivere questo articolo partendo da un sentire personale, da emozioni che mi hanno attraversata nell’ultimo anno, in seguito a una scelta importante vissuta in famiglia: un giovane adulto che, dopo aver costruito una relazione stabile e matura, ha deciso di sposarsi e consolidare quel legame davanti al mondo.

    Senza entrare nei dettagli privati — per rispetto delle vite altrui — vorrei accompagnarti in un percorso narrativo e riflessivo che unisce sguardo personale, osservazione professionale e ascolto del presente.

    Quel ‘per sempre’ che oggi ha nuove forme

    Quando parliamo di matrimonio, spesso pensiamo all’immagine che ne avevano i nostri genitori: una cerimonia in chiesa, una promessa per la vita, ruoli familiari ben distinti e un percorso quasi obbligato.
    Ma sposarsi oggi è qualcosa di molto più ampio, fluido e personale.

    Oggi ci si sposa più tardi, oppure si sceglie di non sposarsi affatto. Le motivazioni cambiano, così come le forme: c’è chi sceglie il rito religioso, chi quello civile, chi una cerimonia simbolica.
    Accanto alle coppie eterosessuali, troviamo unioni tra persone dello stesso sesso, famiglie ricostituite con figli di precedenti relazioni. Sono convivenze che si fondano su un progetto di vita comune, più che su convenzioni sociali.

    Secondo l’ISTAT, i matrimoni civili rappresentano oggi circa il 60% del totale in Italia, superando quelli religiosi.
    Crescono anche le unioni civili tra persone dello stesso sesso, con 3.019 casi nel 2023 (+7,3% rispetto all’anno precedente), mentre un numero crescente di coppie opta per la convivenza stabile, anche con figli, senza contrarre matrimonio.

    In questo scenario, il significato di Sposarsi Oggi cambia: non è più soltanto un contratto o una forma da rispettare, ma una promessa da vivere, quotidianamente, con consapevolezza.

    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami.Ecco l’infografica che rappresenta le principali tipologie di unione in Italia oggi, in linea con il paragrafo "Sposarsi oggi". I dati sono ispirati ai report ISTAT e adattati per chiarezza visiva:
60% matrimoni civili
30% matrimoni religiosi
8% convivenze dichiarate
2% unioni civili tra persone dello stesso sesso (fonte: ISTAT 2023)
    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami: Ecco l’infografica che rappresenta
    60% matrimoni civili
    30% matrimoni religiosi
    8% convivenze dichiarate
    2% unioni civili tra persone dello stesso sesso
    ⚠️ Le percentuali sono semplificate per chiarezza visiva e non sommano al 100% perché rappresentano le categorie principali più evidenti. I dati ufficiali completi sono disponibili nei link ISTAT sopra riportati.

    Una madre single che accompagna da lontano

    Ci sono passaggi della vita che, anche se non ci riguardano in prima persona, ci attraversano dentro.
    Quando mio figlio ha deciso di sposarsi, non ho provato nostalgia, ma qualcosa si è mosso nel profondo. Non era malinconia, ma una domanda che affiorava con dolcezza: “Cosa significa oggi promettersi a qualcuno?”

    Io, il matrimonio, l’ho vissuto in un tempo molto diverso. Ero giovane, piena di convinzioni e desideri, ma anche figlia di un’epoca in cui certe scelte erano quasi un passaggio obbligato.
    Si seguivano percorsi tracciati, spesso senza chiedersi troppo se ci assomigliassero davvero. Anche l’amore, allora, aveva un’altra narrazione: era fusione totale, sacrificio, dovere.
    A distanza di anni, guardando a quella parte della mia vita, riconosco il valore e anche i limiti di quel modello.

    La separazione è arrivata quando ho iniziato a sentire il bisogno di ascoltarmi di più. È stato il momento in cui ho smesso di aderire a un copione e ho cominciato a riscrivere il mio modo di essere donna, madre, persona.
    Da allora, ho camminato spesso da sola. Non per scelta radicale, ma per un misto di pudore, timore, dedizione. Ho messo tutto ciò che potevo nel crescere mio figlio, cercando di non fargli mai mancare presenza e sostegno.

    Ed è proprio per questo che, oggi, il suo matrimonio lo sento come un passaggio anche mio.
    L’ho accompagnato con discrezione, senza aspettative, con rispetto.
    Non per dare consigli, non per essere coinvolta in ogni dettaglio. Ma per esserci.
    In silenzio, ma profondamente presente.

    Sposarsi oggi: un atto di libertà condivisa

    Ai tempi del mio matrimonio, era spesso la famiglia d’origine a organizzare tutto: la cerimonia, il ricevimento, perfino la lista degli invitati. Un passaggio sociale, collettivo, approvato dagli adulti.

    Sposarsi oggi, invece, è un gesto che nasce e si costruisce sempre più spesso dentro la coppia stessa.

    I giovani adulti vivono già fuori casa, convivono, hanno figli. Quando decidono di sposarsi, non lo fanno per accontentare aspettative familiari, ma per dare forma pubblica a una scelta già interiorizzata. Se invece vivono ancora con i genitori, il matrimonio è spesso sostenuto da questi ultimi solo quando i figli sono molto giovani o non ancora indipendenti.

    Nelle coppie dello stesso sesso o nei secondi matrimoni, il significato si fa ancora più consapevole: scegliere il luogo, le persone, il momento diventa un atto simbolico, che rende omaggio a chi ha sostenuto quella relazione, l’ha riconosciuta, l’ha custodita.

    Sposarsi oggi è questo: una scelta che ha il sapore della libertà.
    Una promessa che non pretende perfezione, ma responsabilità.
    E’ una festa costruita con chi c’è davvero. Non più solo zii e cugini lontani, ma amici intimi, fratelli del cuore, compagni di viaggio.
    Quelli che ci sono stati. E che ci saranno ancora.

    Sposarsi oggi: parole nuove per una promessa che cambia

    Oggi le promesse nuziali non sono più solo parole poetiche e sacre o religiose da pronunciare sull’altare.
    Sono spesso frutto di un cammino già condiviso, fatto di quotidianità, di esperienze vissute, a volte anche di figli già nati.
    Ci si sposa già cambiati. E questo non toglie valore all’impegno, anzi. Lo rende più vero.

    Lì dove un tempo si prometteva “per sempre” con l’ingenuità di chi crede che basti l’amore a sostenere tutto, oggi si promette “ogni giorno”, con la consapevolezza che l’amore ha bisogno di manutenzione.
    Di parole giuste, silenzi rispettosi, cura e attenzione.

    Cosa resta, allora, del matrimonio?
    Resta la Volontà, la Determinazione.

    Resta il desiderio profondo di dire: “Io ci sono. Per te. Con te.”
    Resta la scelta quotidiana di non fuggire. Di non dare tutto per scontato.
    Di esserci, anche nei giorni stanchi. Anche quando è più facile rinunciare.

    E forse, proprio in un tempo incerto come quello in cui viviamo, sposarsi oggi è un atto di fiducia radicale.
    Un modo per dire, senza troppe parole, nonostante tutto, io credo ancora nell’amore.

    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami: bouquet
    Sposarsi oggi: parole nuove per una promessa che cambia

    Essere testimoni silenziosi: il ruolo dei genitori oggi

    Tornando alla motivazione che mi ha spinta a scrivere questo articolo, voglio concludere così:

    In quel giorno speciale ho scelto di non essere protagonista, ma testimone silenzioso.
    Li ho osservati con amore, rispetto e dedizione. Con il cuore aperto a ciò che stava accadendo.
    Non ho rivissuto il passato, pur trovandomi accanto al padre di mio figlio.
    Invece ho provato una gioia profonda nel vedere nostro figlio, il frutto di quella unione, lì accanto alla donna che ha scelto per la sua vita.
    Ho accolto il presente con consapevolezza.

    E nel vedere nascere una nuova famiglia, mi sono detta che ci sono storie che meritano di essere raccontate.

    Perché ogni passaggio importante della vita lascia un segno.
    E quando abbiamo il coraggio di fermarci, ascoltarlo e narrarlo, quel segno può diventare luce. Per noi. Per chi verrà dopo.


    👉 Raccontare ciò che ha valore per noi: una scelta di cura, di amore verso se stessi

    Ci sono passaggi della vita che lasciano un segno profondo: matrimoni, nascite, separazioni, riconciliazioni, decisioni che cambiano il corso delle cose.

    Fermarsi a raccontarli, raccoglierli, custodirli… è un atto d’amore verso di sé e verso chi verrà dopo di noi.

    Le Biografie Pedagogiche sono uno spazio intimo e rispettoso in cui dare voce ai ricordi, ai legami, ai significati che spesso restano silenziosi. Un’occasione per riconoscere valore alla propria storia e trasformarla in memoria viva.

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  • Il Valore delle Fiabe che educano all’Immagine Creativa

    Il Valore delle Fiabe che educano all’Immagine Creativa

    Rosa Rita Formica ci accompagna nel mondo delle fiabe, tra creatività, memoria e immagini che educano. Una voce autentica che arriva dritta al cuore.

    Ho conosciuto Rosa Rita Formica nel 2008, durante un incontro tra pedagogisti. Da allora è nata un’amicizia preziosa, che si è intrecciata nel tempo tra vita professionale e personale. In questi 17 anni abbiamo attraversato cambiamenti, evoluzioni, nuovi inizi. Ma, come dico spesso, siamo cresciute insieme: confrontandoci, sostenendoci, anche da punti di vista diversi. Abbiamo scelto di coltivare questa relazione con cura, rispetto e stima reciproca.

    Con le Biografie Pedagogiche desidero dare voce a storie autentiche, capaci di lasciare un segno: racconti di vite vissute con intensità, che ispirano e aprono nuove prospettive. Pensare a Rosa Rita è stato naturale. Ho sempre ammirato il suo lavoro, la sua visione narrativa, il modo in cui trasforma la fiaba in un linguaggio educativo. Sono felice e grata di aver raccolto un frammento della sua esperienza, e di poterlo condividere oggi con rispetto e riconoscenza.

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine. Le due Amiche
    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all’Immagine. Amicizia e Pedagogia

    Le Radici della Narrazione

    Rosa Rita Formica: Oggi sono una donna di 58 anni. Sento di avere alle spalle un vissuto ricco, personale e professionale, un bagaglio che mi ha forgiata. Ma, allo stesso tempo, percepisco che quell’esperienza è lì, dietro di me: non nel senso che non conti più, anzi, ma come se fosse la base che sostiene il mio presente, mentre io mi apro con curiosità a tutto ciò che è nuovo, con lo sguardo di una bambina.

    Sono un’adulta con delle consapevolezze, certo, ma anche con un desiderio – più che un tentativo – di tornare bambina. E quindi accolgo con entusiasmo questa tua proposta, che in parte abbiamo già condiviso in altri modi, ma che oggi vivo con una gioia diversa. Per me l’entusiasmo è davvero il motore: è ciò che mi muove.

    Recuperare la creatività, lo spirito bambino, il contatto con la natura, la condivisione… sono questi gli elementi che oggi mi definiscono. Cerco sempre più di vivere in autenticità, di entrare in relazione vera con gli altri. Ma non è sempre facile. Per molto tempo ho cercato di mostrare solo la mia parte “a posto”, quella che funziona. Ora sto imparando, passo dopo passo, a portare anche le mie fragilità. Non è immediato, ma ci provo… perché ci credo.

    L’Origine della Scrittura: Fiabe e Filastrocche come Voce Interiore

    Rosa Rita Formica: Scrivere fiabe mi accompagna da sempre. Già da bambina mi venne naturale creare un piccolo libretto illustrato con le mie prime storie e disegni: lo conservo ancora oggi nel mio studio, e spesso lo mostro ai clienti quando propongo letture fiabesche. È un ritorno alle origini, al mio mondo parallelo.

    Scrivere, da piccola, era il mio modo per evadere da un contesto familiare severo, com’era comune in quegli anni. Le fiabe erano lo spazio in cui potevo giocare, trasformare, respirare.

    La narrazione è sempre stata una compagna, anche nel mio lavoro in ambito psichiatrico, dove ascoltare le storie delle persone era centrale. Una svolta importante è arrivata con la fiaba La Vecchia Igea e gli Amici del Bosco , scritta dopo la diagnosi di celiachia di mia figlia: è stata un modo affettivo e simbolico per affrontare insieme quella difficoltà. Da lì, la fiaba è diventata uno strumento anche nella mia genitorialità e, in seguito, nella mia professione educativa.

    L’Ispirazione quotidiana: quando sono le Fiabe a trovare Te

    Rosa Rita Formica: Hai toccato un tasto importante. Le fiabe non le cerco io: sono loro che trovano me. Arrivano nei momenti più impensati — quando sono immersa nella natura o, spesso, nel cuore della notte. Mi sveglio, prendo un taccuino e inizio a scrivere. Ormai mio marito lo sa: accendo la luce e annoto parole mentre tutto intorno è silenzioso. È come una connessione profonda con ciò che sto vivendo, con immagini che mi hanno colpita durante il giorno, con emozioni che mi attraversano o frammenti della mia storia.

    Scrivo per intuizione: qualcosa si manifesta, e in pochissimo tempo la fiaba prende forma, quasi da sola. È un pensiero divergente che si accende all’improvviso, un messaggio che chiede di uscire.

    Una fiaba del cuore

    Una fiaba a cui sono particolarmente legata è L’Aquila del giorno e l’Aquila della notte. Racconta di due animali simbolici per me: l’aquila e la civetta, che vivono in due mondi diversi — la luce e il buio — e si incontrano nel momento del passaggio, quando la notte cede il passo al giorno. Questo incontro avviene all’alba, il momento più luminoso della giornata. Nella fiaba, l’aquila della notte lascia spazio all’aquila del giorno: è come un passaggio di consegne.

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine l'Aquila del giorno e della notte
    Aquila del giorno e della notte

    Questa storia rappresenta profondamente il mio cammino personale: è il modo in cui ho imparato a riconoscere le mie ombre e a portarle in luce, senza rinnegarle. Non siamo solo luce o solo buio — entrambe le parti hanno un valore, e solo integrandole possiamo sentirci interi. Quei due uccelli, per me, raccontano l’essere umano nella sua totalità e la mia continua ricerca di equilibrio.

    L’illustrazione di questa fiaba, realizzata da mia figlia quando partecipai a un concorso, è diventata il simbolo della mia pagina Facebook Fiabe e racconti. Educare alle immagini creative. La tengo nel mio studio, proprio davanti alla scrivania. È lì, ogni giorno, a ricordarmi chi sono.

    Il Valore Pedagogico della Fiaba: un Ponte tra Mondi

    Rosa Rita Formica: È una domanda complessa, ma provo a sintetizzare. Per me la fiaba è un ponte relazionale. Se un genitore riesce a leggerla — o addirittura a scriverla — e un bambino ad ascoltarla o idearla, si crea una connessione profonda tra generazioni, tra grande e piccolo, tra mondo interiore e realtà. È un movimento affettivo, un traghettamento con un grande valore educativo.

    Entrare in una fiaba è come varcare la soglia di un bosco immaginario: non sai esattamente cosa troverai, ma qualcosa si muove, si scioglie. Le fiabe agiscono sui nodi interiori, su ciò che è rimasto inespresso, su ricordi lontani. E lo fanno con delicatezza, attraverso immagini e parole che toccano senza invadere.

    Per questo, spesso nei miei percorsi con i genitori chiedo: qual è la vostra fiaba interiore? Quella che vi ha accompagnato da piccoli? E come la riscrivereste oggi? È un modo per riscoprire radici, appartenenza, fiducia. Ogni famiglia custodisce una narrazione preziosa.

    Oggi, con gli albi illustrati, la forza della fiaba si amplifica: parola e immagine si intrecciano, diventando ancora più educative. Anche i Silent Book, senza testo, riescono a raccontare moltissimo. L’immagine educa la parola e la parola dà senso all’immagine.

    Penso, ad esempio, alla fiaba La Vecchia Igea e gli Amici del Bosco realizzata da AIC Lombardia APS. Il suo valore non è solo nella scrittura, ma anche nelle illustrazioni di Linda Cudicio, psicologa e arte terapeuta. Insieme abbiamo dato vita a una storia che ha parlato al cuore di molte persone.

    Le Fiabe come trasmissione di Memoria

    Rosa Rita Formica: Uno dei valori che sento più forti nella fiaba — ma anche nella narrazione in generale — è la capacità di custodire e trasmettere memoria. Nei miei percorsi invito spesso i genitori a recuperare le fiabe della loro infanzia: racconti tramandati, storie familiari che hanno lasciato un’impronta profonda.

    Come fai tu con le Biografie Pedagogiche, credo che ogni famiglia possieda un patrimonio narrativo prezioso, anche semplice, magari orale, ma capace di costruire appartenenza.

    Rileggere, riscrivere o semplicemente ricordare quelle storie diventa un atto educativo e affettivo: unisce passato e presente, adulti e bambini, e ridà voce a ciò che ci ha formato. Le fiabe, in questo senso, parlano a ogni parte di noi, a ogni età.

    Progetti in corso: Fiabe, Natura e Nuove pubblicazioni

    Rosa Rita Formica: In questo momento sto dedicando molte energie a Casa Gemma, il mio progetto di accoglienza a Cividale del Friuli. Nei mesi estivi accompagno famiglie e bambini con letture, fiabe, e a volte li invito anche a inventarne una. Abbiamo una piccola biblioteca con testi per bambini e genitori, anche in più lingue. Qualcuno arriva con i propri libri da casa, e spesso bastano le immagini a raccontare.

    A Casa Gemma c’è anche un personaggio simbolico: il Vecchio Nano Saggio. I bambini gli parlano, gli lasciano storie, lo coinvolgono nei loro giochi. È un modo semplice ma potente per alimentare la fantasia e sentirsi accolti.

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine - gnomo del giardino
    Il Vecchio Nano Saggio

    Sto lavorando alla pubblicazione di Birba Bir, una fiaba molto personale. Racconta di una bambina con un fiocco in testa e una gonna a pieghe, che sogna però di “sporcarsi” nel fango delle pozzanghere. Ama profondamente la Natura, da cui impara ogni giorno. Birba è un personaggio libero, istintivo — ispirato in parte ai protagonisti dell’autrice svedese Astrid Lindgren, come Pippi Calzelunghe, Emil e Vacanze nell’isola dei gabbiani, che ho amato da bambina.

    Accanto a questa storia, sto scrivendo Piccoli sassolini nel bosco: una guida poetica e pedagogica per vivere la natura con consapevolezza. Ogni “sassolino” è uno spunto per fermarsi, osservare, ascoltare. Il testo accompagnerà l’uscita di Birba Bir.

    Non smetto mai di scrivere: alcune fiabe restano nel cassetto, ma so che prima o poi troveranno la loro strada.

    Nuovi Linguaggi: la Scrittura oltre la carta

    Rosa Rita Formica: Beh, sì… anche se mi definisco un po’ “boschiva”, un po’ ribelle. Chi mi conosce lo sa: amo i boschi e le storie raccontate a voce bassa, vicino al fuoco. Ma resto estremamente curiosa — ed è proprio la curiosità che continua a salvarmi.

    Tutto quello che ho imparato sul digitale l’ho fatto da autodidatta. Quindi la risposta è: sì, perché no? Se trovassi una guida che mi accompagni, mi piacerebbe trasformare alcune fiabe in letture ad alta voce, podcast, magari anche piccoli video. Ogni linguaggio ha il suo valore e può diventare un modo nuovo per far arrivare le storie, per condividerle con altri cuori e altre menti.

    E poi, come ti dicevo, ho 58 anni ma continuo a sentirmi bambina dentro. Finché c’è curiosità, non si invecchia mai.

    Presenza Online: Autenticità, Ascolto e Semi di Bellezza

    Rosa Rita Formica: Uso i social in modo spontaneo, soprattutto Instagram e un po’ LinkedIn. Mi hanno permesso di incontrare persone e storie che hanno arricchito il mio cammino. Ma non scrivo per insegnare: se pubblico un pensiero è perché in quel momento lo sto vivendo.

    A volte qualcuno mi scrive: “Quella frase mi ha parlato”. E io rispondo: “L’ho scritta per me. Se ti ha toccato, forse stiamo attraversando qualcosa di simile”. Credo che la condivisione più autentica nasca così: senza forzature, con il solo desiderio di vicinanza.

    Cerco di non pubblicare contenuti pesanti. Amo la natura, la luce, i piccoli dettagli che sanno custodire bellezza. Una foglia, un colore, un’ombra: sono questi i semi che lascio, giorno dopo giorno.

    Se potessi lasciare un messaggio a chi mi incontra online direi: in ognuno di noi ci sono gemme preziose, a volte invisibili. Nulla è mai completamente conosciuto. Serve ascolto, pensiero divergente, voglia di scoperta. Perché ogni incontro, se vissuto con apertura, è sempre un dono reciproco.

    Una frase e una Fiaba per chi legge

    Rosa Rita Formica: In questo momento mi accompagnano due frasi che sento profondamente

    Lascia andare ciò che vuole andare. Rimani con ciò che rimane.

    Oltre i torti e le ragioni, ritroviamoci al di là.

    Parlano di accoglienza, di presenza, di possibilità. Sono piccoli fari che mi guidano quando tutto sembra confuso.

    Per me, la scrittura è sempre uno scambio. Ogni fiaba che nasce porta con sé un seme. E se trova accoglienza, può germogliare nel cuore di chi legge.

    Scrivere fiabe resta, ancora oggi,

    il mio modo giocoso e profondo per abitare il mondo.

    Alcune Pubblicazioni Fiabe Rosa Rita Formica

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine La vecchia Igea
    La vecchia Igea e gli amici del Bosco

    Biografie Pedagogiche: ascoltarsi, rileggersi, ritrovarsi

    Al termine dell’intervista, Rosa Rita ha pronunciato una frase che racchiude il senso più profondo di questo scambio:

    “Sono interviste che permettono di focalizzare un po’ dove sei. Parli a ruota libera, ma qualcosa si chiarisce, qualcosa di vero emerge.”


    Ed è proprio questo l’obiettivo delle Biografie Pedagogiche: offrire uno spazio per fermarsi, raccontarsi, ascoltarsi mentre si parla… e poi rileggersi con occhi nuovi.

    Quando pubblicate, queste interviste possono ispirare altre persone. Ma possono anche diventare un percorso privato e riservato, in cui la pedagogista accoglie il tuo racconto, lo trascrive, e te lo restituisce sotto forma di un testo scritto. Una volta riletto insieme, quel testo apre la strada a nuove consapevolezze, intrecci di senso e direzioni possibili.

    📌 Se senti che è il momento giusto per raccontare un tuo passaggio di vita, puoi prenotare un incontro con me nell’area appuntamenti del sito oppure cliccando qui:

    👉 Perché raccontarsi non è solo ricordare: è anche ritrovarsi.

    Prevenire con cura, supportare con passione.

  • Rinascita di Simone:  Unione tra Zen Shiatsu e Amore

    Rinascita di Simone: Unione tra Zen Shiatsu e Amore

    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Dopo un incidente in moto ha perso la vista, ma ha ritrovato il coraggio di vivere pienamente.

    Questa intervista è stata realizzata seguendo il metodo delle Biografie Pedagogiche: un approccio narrativo e relazionale che dà voce alle persone, valorizzando i loro vissuti, le memorie, le trasformazioni.

    Ho voluto incontrare Simone dopo che mio cognato Fausto, il tassista mi aveva raccontato del suo entusiasmo nel leggere la sua storia e del desiderio di raccontare anche la propria.
    Mi ha colpito subito l’idea che un’altra vita, apparentemente molto diversa, potesse entrare in risonanza e generare connessione.

    È stato un sabato pomeriggio qualunque. Ci siamo sentiti, e poche ore dopo ero già a casa di Simone e Claudia, accolta da entrambi con gentilezza e ospitalità.

    Quella che ho ascoltato è una storia ricca di colpi di scena e coincidenze.
    Una storia di vita di quelle che non si dimenticano.
    Intrisa di pathos, resilienza, amore e forza di andare avanti.

    Un insegnamento per tutti noi.
    Forse sarà ancora più intensa per chi ha già conosciuto la sofferenza, per chi non si ferma alla superficie ma ha imparato ad andare in profondità, dentro di sé e nelle vite degli altri

    Auguro a tutti una buona lettura, in compagnia di Simone: un uomo che ha scelto di raccontarsi con autenticità e con sincero coraggio del cuore.

    Ci ritroveremo alla conclusione.

    L’Identità di oggi: Simone

    Simone: Molte persone, quando ascoltano la mia storia, mi dicono: “Se fossi stato al tuo posto, mi sarei arreso.”
    E invece no. Mi chiamano miracolato. E forse lo sono. Ma prima di tutto sono una persona con un carattere molto forte.

    Non lo sapevo, prima. Prima di perdere la vista non immaginavo nemmeno di avere dentro di me tanta forza.
    Sono rinato nel 2006. Avevo già spiccato il volo verso una vita benestante, poi il destino ha tracciato per me un’altra rotta. Mi ha tagliato le ali.
    Mi sono risvegliato in ospedale e ho dovuto ricominciare tutto da capo.

    E posso dirlo: oggi, forse, avrei quasi paura a riprendere a vedere. Perché nella condizione in cui sono adesso, io mi sento bene.

    Nel quotidiano? Ho avuto la fortuna di seminare bene. Ho sempre coltivato le amicizie con sincerità. Non ho scheletri nell’armadio, e quello che ho dato, in qualche modo, mi è tornato indietro.
    Ci sono tante persone che mi stanno vicino. E poi ho avuto la fortuna di incontrare mia moglie Claudia: dall’altra parte del mondo, con una lingua e una cultura diversa. È stato l’Amore, quello vero, a unirci e a guidarci. E insieme abbiamo creato una famiglia con una figlia fantastica, Susanna.

    Ogni giorno lo affronto con gratitudine e presenza. Perché la vita va vissuta pienamente, e ogni attimo può essere un dono… se ci metti Amore.

    La trasformazione: prima l’incidente

    Simone: Prima dell’incidente… oggi direbbero che ero un nerd. Mi appassionava tutto quello che veniva dal Giappone: noi degli anni ’70 siamo cresciuti con i loro cartoni, le loro tecnologie, i videogiochi.
    Amavo i computer, la grafica… avevo una macchina giapponese, ovviamente! Il mio sogno era andare in Giappone. Era il mio obiettivo di vita.

    Mi piaceva anche rendere felici gli amici con piccole attenzioni. Era la mia motivazione, non so come spiegarlo. Era il mio modo di esprimere affetto e amore, attraverso gesti semplici ma sinceri. Alcuni mi dicevano: “In certi contesti esageri,” ed io rispondevo: “Si vive una volta sola, e se non faccio male a nessuno, perché trattenermi?”

    Mi sono diplomato in ragioneria come analista contabile, ma ho poi studiato anche grafica e Photoshop all’Istituto Europeo del Design. Ho sempre avuto tanti interessi. Sono multitasking e ancora oggi: faccio impianti audio, gestisco il mio telefono in autonomia. Non mi sono mai fatto fermare dalle difficoltà.

    ….e dopo l’incidente

    Simone: L’incidente è avvenuto nel novembre 2005, proprio il giorno in cui avevo ritirato il “bollettone” per la licenza da tassista.
    Stavo andando a prendere dei biglietti per un viaggio a Zanzibar. Scelsi la moto, non la macchina. Poi… tutto cambiò in un istante.

    Una Citroën XM Station Wagon si mise di traverso sulla strada. Tentai di evitarla, frenai, ma l’impatto fu violentissimo.
    Sbattei la testa, il gomito, il ginocchio, le costole. Il manubrio mi lesionò la vena del mesentere.
    Mi hanno salvato per miracolo: un’automedica passava di lì per caso. Fui intubato e trasportato d’urgenza al Niguarda. Senza quell’intervento immediato, sarei morto dissanguato.

    Ho subito 14 operazioni all’intestino. Oggi ho un tratto intestinale di appena 70 cm, contro i 9 metri normali.
    Per mesi ho vissuto grazie alla nutrizione parenterale, con un ago nel petto da cambiare ogni cinque giorni.
    Una dottoressa straordinaria, credette in me. Provò a farmi tornare a nutrirmi per bocca — e ci riuscì.
    Diceva: “Non ho mai visto nessuno reagire così.”

    Mi ha persino chiesto il permesso di raccontare la mia storia in un libro. Ma non l’ho mai nè ritirato nè letto.
    Forse perché, in quel momento, volevo solo tornare a casa. Tornare a una parvenza di vita. Tornare dove ci fosse anche solo un riflesso d’amore.

    L’oscurità e la luce

    Simone: Era febbraio 2006. Mi svegliai dal coma farmacologico. Ero confuso, sotto morfina… pensavo di essere al mare. Mia madre cercava di spiegarmi piano piano la realtà.

    I medici dicevano: “Per ora sei non vedente, ma forse a ottobre potresti riprendere un po’ a vedere, anche solo sfocato.” Mi hanno un po’ illuso.

    Poi, nel tempo, ho girato vari centri, sperando in una risposta diversa. A Ginevra, invece, sono stati molto chiari: “C’è un’atrofia del nervo ottico. Potremmo trovare qualcosa tra dieci, quindici anni… forse.”

    E lì ho capito. Ma non mi sono buttato giù.

    Ho iniziato a cercare altro. Una nuova prospettiva. E con fatica, ho trasformato l’oscurità in un’occasione per guardarmi dentro. Per riconoscere ciò che davvero conta: la forza, le relazioni, l’amore per la vita stessa.

    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Dopo un incidente in moto ha perso la vista, ma ha ritrovato il coraggio di vivere pienamente.
    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Uno sguardo che ascolta. E rivela.

    Reinventarsi: riprogettare la vita

    Simone: Io sono una persona che non sa stare fermo.

    Prima dell’incidente lavoravo nel CED di un’azienda, la Verde Blu, a Rho. Non era un lavoro da scrivania: avevo una certa libertà, uscivo anche con gli operatori, facevo i controlli, mi tenevo attivo.

    Poi, nell’agosto 2006, mi ritrovai a casa, senza poter più fare quello che facevo prima. E lì capìì che dovevo trovare un modo per tenermi impegnato, per non lasciarmi andare.

    All’inizio ero spaesato. Avevo passato mesi in ospedale, e in seguito ebbi anche una crisi epilettica. Nel 2010 lasciai la mia ex compagna dopo una relazione lunga. Non era più la strada giusta, mancava l’amore.

    E così ho cominciato a guardarmi dentro e a pensare davvero a come reinventarmi.

    Ho investito con attenzione i soldi dell’assicurazione, ho comprato casa. E ho iniziato a chiedermi, con coraggio e voglia di riscatto:
    “Cosa posso fare ora? Cosa posso imparare di nuovo?

    Il cammino verso lo Zen Shiatsu

    Simone: Bellissimo questo… Lo Zen Shiatsu è arrivato proprio quando non sapevo più che direzione prendere. Un momento sospeso, in cui cercavo qualcosa che avesse senso.

    È stata una mia amica a parlarmene. Mi disse che stava frequentando una scuola di Zen Shiatsu a Milano e che aveva chiesto al suo maestro se avrei potuto partecipare, anche se non vedente. Lui rispose subito: “Ma certo! Deve venire”.
    Il maestro si chiama Carlo Tetsugen Serra – vuol dire “fonte di ferro” – e arrivava da un’esperienza monastica. In lui percepii subito quella calma profonda, quell’autenticità che mi serviva in quel momento.

    Iniziai il percorso senza sapere dove mi avrebbe portato, ma sentivo che lì c’era una possibilità di cura, e forse anche di amore verso me stesso.

    Uno spazio di percezione nuova

    Simone: La cosa straordinaria? I primi a praticare lo Shiatsu erano proprio i non vedenti. Nacque in Cina, con il nome di Anma, poi si diffuse in Giappone. Alcuni praticanti furono esclusi per mancanza di rispetto verso il corpo dell’altro, ma chi proseguì con disciplina e integrità ha mantenuto vivo un cammino fatto di ascolto profondo e attenzione per l’altro.

    Io ho studiato seguendo il metodo di Masunaga, uno dei grandi maestri. E devo essere sincero: ero e sono avvantaggiato. Non perché non vedo, ma perché sento di più. È un’altra forma di percezione, più sottile, più profonda.

    Simone: Esatto! È incredibile, no?
    Il Giappone era il mio sogno prima dell’incidente… e lo Zen Shiatsu me l’ha riportato nella mia vita, in un modo del tutto inaspettato.

    Non ci sono mai stato fisicamente, ma è come se ci fossi arrivato spiritualmente.
    E poi quella scuola era davvero speciale: il monastero dove si facevano le lezioni era tutto in legno, con pavimenti in tatami, pareti scorrevoli di carta di riso, e silenzio. Solo tè caldo, meditazione e voce bassa.
    Uscire da lì era come svegliarsi da un’altra dimensione.

    Zen Shiatsu

    Simone: Ho studiato per tre anni, presi il diploma di operatore Zen Shaitsu nel 2013. Per imparare, devi prima ricevere. Facevamo esercizi, ci scambiavamo i trattamenti…
    Io, lo ammetto, a metà del kata mi addormentavo. Lo Shiatsu ti rilassa così tanto che… anche quando lo pratico sugli altri, glielo dico sempre: “Beato te che lo ricevi!”

    È una pratica profonda, che non smetti mai di esplorare. Ha radici buddhiste. C’è un libro che amo, “Le 101 storie Zen”: Racconta la vita nella sua essenza più semplice, più vera.
    Lo Shiatsu mi ha insegnato a rallentare, ad ascoltare davvero, a rispettare i ritmi della persona. E soprattutto, mi ha insegnato un amore e rispetto profondo per il corpo umano, inteso come spazio di ascolto e di presenza.

    Quando uscivo dal monastero, non volevo rientrare subito nella confusione della città. Era come se lì dentro si respirasse un altro mondo, fatto di silenzio, cura, e presenza.

    Simone: Assolutamente sì.
    E sai perché? Perché io mi sento come se fossi dietro una parete: voi mi vedete, ma io non vi vedo. E questo cambia tutto.

    Non ho più vergogna. Non mi agito. Anche quando mi hanno intervistato in radio, ero tranquillo.
    Il mio modo di percepire gli altri passa attraverso il corpo, il contatto, l’energia. E nello Shiatsu questa sensibilità ha un valore enorme. È lì che l’amore per l’altro diventa gesto concreto, ascolto puro.

    La mia passione oggi

    Simone: Quando pratico lo Zen Shiatsu, cerco di creare uno spazio intimo, dove il tempo rallenta e tutto si fa più silenzioso. Chi si affida a me ha bisogno di ascolto, di rispetto. Ogni corpo parla una lingua unica, e io provo a comprenderla con le mani.

    Spesso, dopo il trattamento, le persone restano sul futon. Alcuni si aprono, raccontano. Altri si abbandonano a un sonno profondo. È un incontro di energie, di fiducia reciproca, di presenza autentica.

    Non è solo una sequenza tecnica: è un dialogo silenzioso. Uso le mani, i pollici, il corpo intero. Mi muovo in posizioni precise — seiza, arciere, mezzo arciere, birmana — che permettono di entrare in relazione profonda con la persona.
    Ogni gesto ha un’intenzione, ogni pressione una direzione. Mentre lavoro, ascolto. E ogni volta, imparo qualcosa.
    Perché nel corpo dell’altro si nasconde sempre una storia. E il mio compito è accoglierla, con rispetto e amore.

    Il mio modo di “vedere” passa tutto dal tocco. Anche senza parole, so riconoscere se c’è una tensione, una ferita, un trauma.
    Questo contatto crea un legame discreto ma forte, fatto di cura e autenticità.

    Certo, all’inizio mi sembrava impossibile memorizzare tutti i kata, le posizioni, le sequenze… Ma quando qualcosa ti appassiona davvero, ti insegna anche la costanza. E ti resta dentro.

    L’incontro con l’amore e la nascita di una famiglia

    Simone: È una storia assurda. In Colombia non volevo neanche andarci.
    Ma un amico, Alessandro, che viveva là da anni, continuava a dirmi: “Devi conoscere Patty, Ricordati Patty!”
    Alla fine, in estate 2015, sono partito davvero. Prima sono stato in Messico, poi da lui a Medellín. L’ho conosciuta lì, verso fine giugno.

    Ci siamo visti poco di persona, perché lei lavorava tantissimo. Ma in quei pochi incontri c’era qualcosa che mi colpiva: era riservata, non facile. Aveva dignità.
    Le ho fatto un trattamento di zen shiatsu, ed è stato il nostro primo vero contatto.

    A fine agosto sono rientrato in Italia. E da lì abbiamo iniziato a sentirci tutti i giorni su Skype. Tutti i giorni.
    Non ci capivamo perfettamente con le parole, ma ci capivamo lo stesso. È quello che chiamo “linguaggio dell’amore”.

    A dicembre le ho chiesto di sposarmi.

    Rinascita di Simone: Amore tra Simone e Claudia

    Amore, Simone e Claudia: una rinascita condivisa

    Simone: Susanna significa “fior di loto”. Ma la cosa incredibile è un’altra: mia madre aveva sempre sognato di avere una figlia e di chiamarla così. E un altro nome che le piaceva era Patrizia.

    Alla fine, ha avuto due figli maschi: io e mio fratello Stefano. La vita comunque le ha fatto un dono inatteso. Mia moglie si chiama Claudia Patrizia. E nostra figlia si chiama Susanna.

    Mia madre è stata al settimo cielo. In un colpo solo ha avuto le due figlie che aveva sempre desiderato: la nuora e la nipote, con i nomi che custodiva nel cuore da una vita.

    Simone: La paternità ti cambia. Quando tieni tra le braccia un essere vivente da proteggere, capisci che non è più solo la tua vita. Diventi responsabile. Oggi sento che devo durare il più possibile, per lei. Perché l’amore di un padre passa anche da questo: proteggere.

    Cosa voglio trasmetterle?
    Educazione, rispetto, umiltà. Che impari ad essere generosa e anche discreta, che non viva per apparire, ma per essere.

    Io e mia moglie cerchiamo ogni giorno di farle capire che il vero valore non è in ciò che si mostra, ma in ciò che si dona con amore.

    Lei è un po’ vanitosa, le piace sentirsi bella, e va bene così.

    “Puoi brillare, sì, ma non per quello che mostri. Brilla per quello che sei.”

    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Dopo un incidente in moto ha perso la vista, ma ha ritrovato il coraggio di vivere pienamente. Unione di sguardi
    Amore e Complicità in uno sguardo

    Uno sguardo sul futuro

    Simone: Direi: Guarda me.
    Guarda la mia situazione. Ascoltala bene. Perché a volte ci lamentiamo per cose piccole, ma se ti fermi un attimo a vedere quello che altri vivono… cambia la prospettiva.

    Io lo dico anche agli amici, quelli che mi raccontano problemi con la mamma o con la moglie: “Guarda me.”
    Perché il primo problema siamo noi stessi. Se tu hai un conflitto, inizia da te.
    La soluzione non è scappare. È parlare. È dialogare, sempre.

    E poi bisogna aver voglia di vivere.
    Perché dal momento in cui nasci, sai che prima o poi morirai. Allora tanto vale vivere il più possibile, bene.
    Essere positivi, fare le cose, provarci.
    Se parti pensando “non ce la faccio”, non ce la farai mai.


    Ma se hai fame di Vivere, se dici
    “Voglio, posso, ci provo”,
    allora qualcosa succede. Sempre.

    La storia di Simone ci insegna che anche quando la luce viene meno, è possibile vedere più a fondo. Con il corpo, cuore, Amore.

    Ogni esistenza porta in sé una forza invisibile, che merita di essere raccontata e custodita.

    Se senti che anche la tua storia, o quella di una persona cara, merita voce e ascolto, contattami per un percorso di Biografia Pedagogica. Perché ogni vita ha valore. Ogni memoria è un dono.

  • Custodire il Mondo con la Fede quando tutto sembra vacillare

    Custodire il Mondo con la Fede quando tutto sembra vacillare

    “Custodire il mondo con la Fede quando tutto sembra vacillare” è una testimonianza personale di fede, rinascita e scelte di vita. Una riflessione sull’eredità spirituale di Papa Francesco e sui valori di umanità, inclusione, empatia, educazione e spiritualità vissuta. Questo articolo è anche il primo di una serie che racconteranno la mia esperienza missionaria e si andrà a inserire nella tematica “esperienze nel mondo”

    Ci sono giorni in cui il mondo trema senza fare rumore. Non c’è un terremoto. Non c’è una sirena. Ma dentro le coscienze qualcosa si incrina. Umanità, inclusione, condivisione, empatia: non sono più la trama visibile. Diventano desiderio, memoria, bisogno.

    La morte di Papa Francesco è uno di quei giorni. Un vuoto simbolico, affettivo, educativo si è aperto. E la domanda che mi porto dentro, con forza e timore, è: cosa sarà il mondo da oggi in poi? Chi guiderà, chi ascolterà, chi curerà?

    Dopo questo forte evento sento il bisogno di testimoniare pubblicamente una parte di me che finora ho custodito in modo intimo: la mia fede. Senza la fede, nulla avrebbe più senso nella mia vita. Non lo studio, non la famiglia, non le relazioni. La fede per me è cammino, sguardo sull’umano, ascolto interiore.

    Chiarezza e Fedeltà Interiore

    È una posizione profondamente rispettosa e coerente con la mia identità: non ho mai parlato pubblicamente di religione o politica in senso diretto. Ho preferito restare fedele ai valori, ai gesti e ai concetti che mi appartengono e che sono parte viva del mio cammino pedagogico e umano.

    Ma oggi, con la scomparsa di una figura come Papa Francesco, si apre uno spazio di instabilità globale che può far paura. Era una delle pochissime voci capaci di parlare al mondo intero con autorevolezza, empatia e coraggio. Una voce che univa più che dividere, che spostava l’attenzione dalla logica del potere alla logica del servizio.

    Il timore che provo – quello di una possibile catastrofe mondiale – non è solo immaginazione. Stiamo vivendo un momento delicatissimo: crisi ambientale, conflitti internazionali sempre più feroci, disuguaglianze economiche e culturali, una disumanizzazione crescente nei linguaggi e nei comportamenti sociali. La sua assenza potrebbe accelerare lo smarrimento.

    Ma proprio per questo, ora più che mai, credo serva una pedagogia della cura, della parola, della memoria e del discernimento. Il mondo ha bisogno di persone che tengano accesa la fiammella della narrazione profonda, della relazione autentica, della fiducia nell’umano.

    Forse non potremo impedire il caos, ma possiamo seminare senso. E oggi – in silenzio, con rispetto – scelgo di fare un piccolo atto simbolico nel mio lavoro: un gesto, un incontro, un pensiero che custodisca il messaggio di Francesco. Prendersi cura del più piccolo, dare ascolto a chi non ha voce, ricordare chi siamo davvero.

    Una Fede che evolve, come Me

    Ho vissuto tutte le fasi che molti attraversano: entusiasmo iniziale, disillusione, rifiuto di regole che sentivo lontane dalla mia libertà di spirito. La mia frequentazione della Chiesa si è trasformata con il tempo. Ricordo bene il 1992: avevo 28 anni, una giovane donna che decideva di separarsi. Scandalo. Condanna. Domande offensive. Ma io non stavo impazzendo: stavo scegliendo la verità, e rinunciando alla menzogna.

    La solitudine, la depressione, e poi – grazie ai miei genitori – la rinascita. Ho ricominciato a studiare. Ho scelto pedagogia. All’inizio per logica, poi come chiave per comprendere me stessa e accompagnare gli altri. L’educazione è diventata la mia forma di fede attiva: educare è un atto politico e spirituale. Educare è credere.

    Un Sogno africano, una Scelta d’Amore

    A un certo punto ho lasciato il mondo aziendale per un sogno: andare in Africa (tre volte in Tanzania) in missione. Ho fatto tre viaggi, tre mesi alla volta. Non era facile, ma mi sembrava la strada giusta. E poi ho capito che no, non era il tempo. Mio figlio stava costruendo la sua famiglia. Mia madre era anziana. Ho scelto di restare. Una rinuncia? Forse. Ma anche questa è stata una forma di amore.

    Ho vissuto un po’ di Africa anche in Italia, nei volti delle persone che ho incontrato. Sto ricostruendo, ancora una volta, una reputazione. E oggi, nel rileggere questi passaggi della mia vita, mi rendo conto che ogni caduta è stata un punto di svolta. Ogni “fallimento” ha dato nuova profondità alla mia fede.

    Parole che mi Guidano

    In questi giorni mi risuonano dentro parole potenti: seme gettato, noi siamo il nostro tempo, intelligenza è intelletto e cuore, relazioni autentiche, comunicazione interpersonale. Sono parole intrecciate alla fede. Senza Dio, tutto si svuota. Ma con Dio, ogni cosa assume significato. Anche ciò che non capisco subito.

    La morte di Papa Francesco è stata una scossa. Ha incarnato il Vangelo del quotidiano, la prossimità, la giustizia, la fratellanza. Oggi non c’è più. E mi chiedo: chi raccoglierà il suo testimone? Io non ho risposte. Ma so che posso custodire quei valori. Posso continuare a credere.

    Custodire il Mondo con la Fede. Il sorriso di Papa Francesco - Foto di Gunther Simmermacher su Pixabay
    Custodire il Mondo con la Fede. Il sorriso di Papa Francesco – Foto di Gunther Simmermacher su Pixabay

    La mia Fede, oggi

    Oggi scelgo di uscire allo scoperto. Non per dare ricette. Non per indicare strade. Ma per dire con sincerità: Ci credo. Credo nei miei valori: famiglia, conoscenza, libertà di parola, aiuto per l’altro/a. Credo che anche se il mondo vacilla, possiamo essere custodi silenziosi di ciò che conta davvero.

    La mia fede non ha bisogno di essere perfetta per esistere. Ha solo bisogno di essere vissuta. Ogni giorno. Con Umiltà, Passione, Fiducia.

    Se anche tu senti che la fede – o un valore profondo – ti ha accompagnato nei momenti difficili, scrivilo, custodiscilo, raccontalo. Perché insieme possiamo continuare a seminare senso.

    Prevenire con cura, Supportare con passione.

#esperienzanarrata
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